“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 25 February 2016 00:00

Iago, ante litteram del raisonneur wildiano

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Una commedia della verità dove
il male ne è la parte più seria.


 
Focalizzando l’attenzione su un’opera shakespeariana, la necessità di contestualizzare è fondamentale. Un approccio olistico alla situazione contingente dell’inizio del XVII secolo introduce sia le istanze autoriali sia i motivi singolari che mi portano a rilevare nell’opera in oggetto un barlume di un tema caro: il piacere del male.

Siamo in un periodo di confine, una linea demarcatrice evidenzia una soglia dove le due sponde sono un tempo nuovo, da una parte, e uno scaduto, dall’altra. Nuove esigenze si profilavano, nuove spinte sia nelle fondamenta politico-sociali sia in quelle filosofico-culturali. Per l’Inghilterra, nella fattispecie, il crogiolo dei mari e delle sue scoperte arricchiva uno scrigno di possibilità che si apriva a tutti i campi del sapere, esacerbando però quella neofobia comune nel genere umano. Se politicamente ed economicamente l’Inghilterra si offriva al mondo con le sue ricchezze, l’esportazione implicava un’importazione promiscua di rivelazioni e appelli al rinnovamento nell’epistemologia dei pilastri culturali.
Hegel parla della modernità come di un passaggio da una visione teocentrica a una antropocentrica, il fiorire dell’umanesimo prima, le categorie manichee platoniche e aristoteliche e le filosofie totalizzanti che lasciano il posto al dubbio, alla curiosità socratica, il cogito subito dopo. La grande catena dell’essere che gerarchicamente naturalizza il potere e legittima prospettivamente l’assolutismo, in una linearità cosmica dove i ruoli creano gerarchie sociali, l’uomo intellettuale comincia a ribellarsi, se pur silenziosamente, al principio di autorità che tarpa l’indipendenza della ragione. Ogni gesto di insubordinazione diventa atto titanico, persino negli scritti e nel materiale letterario prodotto in quegli anni gli epiloghi delle narrazioni si propongono spesso di ridimensionare l’alterità del soggetto, la sua ribellione, con la sua inevitabile caduta. Il discorso sul mondano interessa più di quello sui cieli.
La crisi ermeneutica provoca discussioni, i significanti si svuotano, l’eccesso delle forme drammatizza spesso la vuotezza dei contenuti, come fosse tutto da rimodulare, come se le vecchie e stantie classi di cose non rappresentassero il flusso altalenante della vita. Non è una rivoluzione, ancora non c’è un’esplosione al modo del Terzo Stato francese, ma la camera magmatica è sveglia e il piacere di questa disobbedienza, apparentemente fedele alla linea, sta tutto nella lingua, nella retorica, nel manierismo, spesso, in una parola polisemica ribelle all’etica di una mimesi icastica, nel caso specifico dell’arte. È il momento del ‘wit’, del personaggio che porta come sua unica credenziale l’artificio della lingua, attraverso la quale godiamo di giochi retorici, della rapidità con la quale crea sillogismi; delizia l’intelletto atrofizzato e smanioso della perversione ancora tutta mentale. Il periodo dell’eufuismo, dai cui Shakespeare prese le distanze con delle caricature di questi ‘Euphues’ alla John Lyly, il concettismo tipico dello stile dei poeti metafisici, dove non manca una forte intensità della parola con una ricca concentrazione semantica.
Molte altre istanze poetiche convergono nella tesi che intendo sostenere e cioè quella di affermare l’affollamento creatosi intorno alla parola e al suo potere scardinante, la piacevolezza che si prova alla presenza di personaggi dotati di ‘wit’ che al contatto con la prosaicità della realtà diventano spesso ‘villain’, come critici con una realtà poetica scarsa.
Prima Amleto: nasce nel teatro shakespeariano come un miracolo, il primo disturbo nell’immagine, un flusso interrogativo che destabilizza, delegittima qualsiasi potere, condannato ad un’esegesi senza fine. Non è l’uomo moderno, è la frattura, è un uomo medievale che spezza con il dubbio la coltre dogmatica e si scopre anelante. Una biplanarità di se stesso che lo tormenta, l’aspetto fenomenico e quello ideale, l’apparenza che non è teatro di verità, l’ostilità della rappresentazione. Qui entra il fattore interessante e che riguarderà invece Iago: la capacità critica. Amleto si distanzia da se stesso, tratta se stesso come oggetto e si descrive. Solo questa posizione permette di decostruire gli affastellamenti rassicuranti della metafisica che si stratificano, non certo l’immedesimazione.
Se Amleto però ne esce tormentato da ogni soliloquio, Iago è un personaggio più integro, più autore di se stesso e commediografo della sua malvagità.
L’Otello di Shakespeare viene scritto intorno al 1603, è una tragedia intima, dove il male spesso viene ancora relegato a configurazioni medievali. La tragedia è un ibrido tra la commedia della parola e il dramma dei fatti.
Lo spazio che si apre somiglia a un flusso dove l’avversità delle due nature sembra essere di matrice filosofico-religiosa, è un duello molto visivo anche nella lettura e i personaggi di Iago e Otello non lasciano molto spazio alla fantasia, sono abbastanza demarcati, la loro epidermide è un confine culturale, uno scontro di colori come di fazioni, da una parte la filosofia (Iago) dall’altra la poesia (Otello). È un’antitesi insolubile, non si risolverà in nessun compromesso. Otello porta avanti un pensiero lineare, Iago un pensiero anamorfico, relativista, non a caso quest’ultimo spesso risponde con domande alle domande postegli. Nulla di quello che dice Iago esiste, la sua parola somiglia al suo pensiero, ma per Otello è diverso, le parole sono come atto fondativo, somigliano alla realtà, l’immagine della realtà, non la interpretano. È la pedagogia del verbo che rende funzionale la parola per Otello, per Iago la parola ha il tempo del pensiero, spesso di un pensiero debole.
Shakespeare fa parlare molto più Iago che Otello, a ragione; c’è una vera conquista linguistica, uno sconvolgimento della mente che rende dipendente la vittima dal carnefice. Una dicotomia si ripete nei dialoghi e porta avanti l’orda del sostrato tematico: quella tra magia e intelligenza, tra forza creativa di Otello e forza dialettica di Iago. Quando Iago afferma “I’am nothing if not critical” (Atto II, scena I) abbiamo esplicitamente una dichiarazione in cui il piacere consiste nell’essere portatori di un pensiero moderno epurato dalla linearità teologica, è un piacere tutto linguistico, una malia discorsiva. Desdemona lo accusa di saper lodare meglio il peggio, ma la stessa è un ante litteram romantico, una tragica figura che oppone un’idealità di bene, la quale non si configura in quel legame perverso che relaziona verità e coscienza del male.  Si apre un passaggio, quella naturalità che il male assumerà, quel distaccamento della bellezza dall’etica, non più trasgressività ma questione pienamente umana. Nella fattispecie, il reticolato di antitesi che va creandosi tra i characters e le facoltà che portano, crea un piacere barocco del male, il fruitore lo ricava dal risveglio mentale che i discorsi sinuosi, con una sensualità medusea, innescano con logicità della parola.
Iago è un Lord Henry Wotton ne Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, forse più grezzo, ma la linea sintagmatica del pensiero scorre con una simile fluidità che nel modellare le parole, vitalizza ombre e luci, il flusso di assiomi ha come sorgente una menzogna, ma alla fine non ci interessa, questo è il piacere, la delizia. Tutto intessuto con una filigrana di scetticismo, di gratuità. Un gorgo lapidario che ha il piacere di se stesso, della propria scena, della propria commedia. È una commedia visiva, dinamica (come l’evento in cui Iago parlando con Cassio di Bianca fa credere ad Otello si stia parlando di Desdemona), un vero mimo, una prima donna: la retorica. L’assenza di motivazioni al male fa di questa tragedia una beffa, solo la passionalità di Otello e la sua incrollabile natura poetica scateneranno la tragedia, un epilogo necessario per applicare la legge cosmica di una pietas antica.
La domanda sorge spontanea: l’arguzia che mostra di avere Iago è poi sinonimo di intelligenza? Spesso lo si identifica come ‘onesto’ senza che ce ne sia dato un giusto motivo, quasi come se fosse sinonimo di inoffensivo, un’esorcizzazione. A questo punto si potrebbe introdurre un discorso sulla presunta “banalità del male” commesso da Iago, di come da wit, a contatto con la realtà, sia passato a villain. Il male per il male, l’aneddoto del pero di Sant'Agostino. Il male di Iago può essere un male inutile, ma non banale.
La verità è risibile, come una commedia, fallibile, buffonesca. Esiste però un lato serio − della commedia, come della verità − ed è il male, forse l’unica parte vera.


 

William Shakespeare
Otello
a cura di Anna Luisa Zazo
traduzione Salvatore Quasimodo
Milano, Mondadori, 2002
pp. 353

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