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Thursday, 03 September 2015 00:00

La città istoriata. Siviglia, day 1

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Arrivo in questa città torrida. È domenica, e il fatto che la gente in giro sia poca la fa sembrare deserta: devono essere tutti in spiaggia o rintanati in casa a godersi il sollievo della penombra.
Si fa presto ad orientarsi: la parte antica della città, quella più pittoresca, si rannicchia nell’alcova formata dall’ansa del Guadalquivir, affiancato da una spaziosa strada a tre corsie. Il resto è un dedalo di viuzze che sfociano in piazze dalle dimensioni spropositate, casette affastellate dalle persiane sprangate e marciapiedi rosicchiati.

La prima cosa che sperimento in terra spagnola è un cafè con leche, triste surrogato del nostro cappuccino. Impiego ben venti minuti per berlo: anche con l’aggiunta di latte freddo, la bevanda – servita in un bicchierino highball – paventa ancora l’ustione. Dopo questo ristoro dai dubbi benefici, raggiungiamo l’ostello provati per il poco sonno della notte precedente: il fastidioso imprevisto del bagaglio smarrito ci costringe a dividerci il misero flacone di sapone neutro messo a disposizione dai nostri ospiti.
Una breve e tormentata fiesta ci dona occhi nuovi per fare la conoscenza di questa città: dismesse le pesanti coltri della stanchezza fisica, tutti i sensi sembrano concentrarsi sulla vista, come se diminuissero la loro acutezza per aumentare quella del senso più sollecitato.
Passeggiamo avanzando in quest’aria che sembra pronta ad incendiarsi. Siviglia è l’unico porto fluviale della Spagna, eppure questo fiume è così poco urbanizzato! Sembra che nessuna costruzione voglia avvicinarsi, il Guadalquivir viene lasciato riposare come se fosse un animale, preistorico e pericoloso. Paradossalmente nel bel mezzo di una città con quasi settecentomila abitanti, ci sono dei piccoli moli, dall’aria instabile e caduca, che accolgono perlopiù pescatori, ma anche un curioso bagnante-nonbagnante che riempie una grossa tanica d’acqua e se la versa addosso, rimanendo però coi piedi sulla più rassicurante superficie legnosa del molo.
Ispirata da questo strambo rimedio contro il caldo, mi libero delle scarpe e lascio penzolare i piedi oltre la costola di questa penisola galleggiante: una sensazione anacronistica si impossessa di me, al punto che finisco per impedirmi ragionamenti comparativi, campati per aria quanto sterili. Mi rimetto le scarpe scacciando pensieri sul difficile rapporto tra uomo e natura, sulla strana quanto incredibile nostra capacità di corrompere tutto ciò che tocchiamo. Mi sovviene un pensiero amaro, che intreccia i propri subdoli tentacoli alla consapevolezza che, a casa, mai mi sarebbe venuto in mente di avvicinarmi a queste linfe che noi abbiamo reso ricettacoli urbani.
Mi allontano lasciando una debole e incompleta orma bagnata, destinata – almeno lei – a svanire presto.

Siviglia è la città di grandi alberi. Mastodontici ombù con tronchi che, come tentacoli fossili fusisi tra loro, sostengono folti ombrelli di un cupo verde. Il fogliame appare impenetrabile come l’inconfondibile intrico di radici che, come esotici serpenti, riposano placidamente, cristallizzati alla sua ombra.
Qualche volta un tentacolo impertinente sfugge all’agglomerazione e decide, isolato, di sorvegliare distaccato la pianta madre che si stria del guano lattiginoso degli uccelli che vi trovano riparo.
L’ombra degli alberi implode in piazzette e paseos strategicamente disseminati; queste macchie scure e fresche mai arrivano a lambire le case, affastellate come legna da ardere sotto il sole di agosto. Tuttavia gli azulejos, le piastrelle di maiolica, conferiscono una sorta di sempiterna freschezza ai torridi androni aperti sulla via. Il colpo d’occhio, nell’insieme, è notevole: il ripetersi dei motivi decorativi sembra avvolgere le proprie spire attorno al corpo del malcapitato avventore; la sensazione di familiarità per una tecnica artigianale diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, finisce per perdersi nella vaga ma persistente consapevolezza che la finezza con cui il blu si adagia sul bianco sia opera di temibili conquistatori. O di tenaci conquistati, dipende da che capo della linea del tempo si stia guardando.
Le piastrelle, incorniciate da imposte dagli eleganti colori come marrone, verde e blu scuro, sono poste anche nella parte inferiore dei balconcini, o meglio, sotto: in questo modo, chiunque si trovi a passare, alzando gli occhi al cielo potrà godere di un'ulteriore illusione ottica, che spesso si intreccia con quella data dell’intero edificio.

Nulla è lasciato al caso.
Solo i cavalli, ancorati a carrozze laccate, stazionano senza uno schema ben preciso lungo la piazza della cattedrale. Al contrario, i loro cocchieri sembrano aver assorbito la foga degli equini selvaggi quando, esagitati, ti adescano cercando di venderti un giro pittoresco, per quanto possa esserlo un turista dagli indumenti mal assortiti sopra una carrozza non poi così lustra. Solo i giapponesi lo sono, con i loro visi opalescenti riparati dai ricami di ombrellini di pizzo. Una di loro, una ragazza, ritta come un fuso a fianco del nerboruto cocchiere, mi fissa dall’alto in basso, mentre il cavallo continua il suo trotto cadenzato, portandosela via.
Attraversando i palmeti del parco cittadino, penetriamo in uno spiazzo sterrato, di sabbia ocra, al centro del quale si adagia Plaza de España, un enorme complesso architettonico che sembra abbia ospitato l’Esposizione Iberoamericana, durante il famigerato anno del crollo di Wall Street. Di esotico, però, non ha nulla; anzi, fa “Vecchio Mondo” più che mai con le sue maioliche – istoriate per riprodurre firme di trattati, armistizi, conquiste, riconquiste – atte a dare lustro all’impero spagnolo, come pure con i suoi laghetti altri un metro e l’impressionante ritmo delle balaustre di azulejos.
L’unico tratto che minaccia di riportarmi in una terra di magia e superstizione, è un vecchio sedicente indovino, dal naso bruciato e gli artigli di capra, che con i suoi polpastrelli sbiaditi mi srotola la mano per leggerla come una pergamena. Gli regalo due euro per evitare che trasformi le predizioni in maledizioni.
Torniamo ad immergerci tra palme e tipuane, diretti alla volta della torre della Giralda, cui si accede obbligatoriamente passando per la cattedrale. Gli ambienti oscuri e austeri di questo incredibile frutto del barocco spagnolo, ci offrono un po’ di refrigerio; sollievo che però diventa asfissiante, saturato dall’afrore del massiccio legno antico. Questi monoliti di magnificenza devono essere trattati, ovviamente: le tarme avrebbero proliferato, in tutti questi secoli. Tuttavia l’odore che sento ricorda vagamente l’incenso, al punto che mi chiedo se la superficie lignea, a forza di esservi esposta, non si sia impregnata. Fantasmi di fumo si arrotolano verso le volte a crociera, mentre seguo con lo sguardo i cordoli che ne definiscono le sezioni.
Ho letto che la Giralda era originariamente un minareto, poi trasformato in una torre campanaria: Isabel la Cattolica non distruggeva mai ciò che di moresco conquistava, ma riconvertiva, inglobava, ampliava. La vista da quassù rivela lo scalpo di una città adagiata in una depressione circondata da altipiani. Una conca dove i cortili interni, privati, sembrano sbocciare qua e là come fiori; l’immagine delle case affastellate si corrode fino a diventare una semplice facciata, innalzata al solo scopo di custodire un tesoro intimo.
Dopo esserci inerpicati per le trentaquattro rampe di scale della torre, ridiscendiamo verso un patio che nulla ha a che vedere con le tipiche costruzioni cristiane. Con una sorta di sfasamento visivo osservo gli aranci sdoppiarsi davanti a me, moltiplicandosi, formando pentagoni e proiezioni con la pavimentazione. La precisione geometrica con la quale sono disposti è gemella di quella mano che ha tracciato l’impianto di irrigazione, scavato nei mattoncini del pavimento.
La firma è araba, con tanto di epiteto: “i maestri dell’acqua”.

Siviglia è la città che più di tutte (almeno fra quelle che mi è capitato di visitare) fa delle tapas un inno, un monumento, un fiore all’occhiello. Complice il periodo delle vacanze estive, in giro non si trova un solo posto che offra semplicemente un piatto di carne, o uno di paella. O meglio, non mangiare tapas diviene impensabile nello stesso momento in cui ti siedi nei cortiletti rischiarati dall’illuminazione cittadina: l’enorme varietà di questi piccoli antipasti oscura quel tipo di pietanze che definiremmo “piatti completi”. Carne, verdure, (purtroppo per me) tanta cipolla; ma anche tanto pesce, presentato in tutte le salse, a tal punto che i gamberi vengono serviti come tapa al bancone di un bar, spolverati di sale grosso.
È questa la vera particolarità del consumare tapas: farlo come se stessimo semplicemente prendendo un caffè al bar. Ma se in Italia la colazione è il momento sacro, durante il quale ogni parola è superflua, in Spagna – a Siviglia, in particolare – i locali letteralmente brulicano di persone che mangiano, bevono, ridono e scherzano, capaci di mangiarsi uno spezzatino al sugo di vino a mezzanotte passata.
Per accompagnare, cervecita fredda: leggera, servita perlopiù in quantità atte a dissetare senza ingombrare. Al contrario di quanto si possa pensare, la sangria non è molto sponsorizzata, e l’acqua, nonostante il caldo, è praticamente bandita dalle tavole. Birra, solo birra fresca per dissetare e annaffiare le tapas.
Birra a tutte le ore, preferibilmente accompagnata da curiosi cornetti simili ai taralli e da lupini al sale.

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