“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 19 February 2013 04:30

Lottare per vivere

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La pièce, ideata e diretta da Dario Aggioli, è ambientata in un manicomio, in una clinica vicino Torino, dove si trovano ricoverati Enrico, nostalgico dei discorsi del duce, e il Professor Ferruccio, un ebreo romano, che costretto a fuggire dopo l’emanazione delle leggi razziali in Italia, viene ricoverato in un manicomio con il falso nome di Angelo. Gli Ebrei sono matti rappresenta un tributo alla verità troppo spesso misconosciuta da parte della storiografia di stampo positivista interessata più ai fatti politico-militari che a preservare la memoria di certi “Schindler” che, come Carlo Angela, salvarono molti Ebrei dai campi di sterminio.

La biografia dei due personaggi è l’occasione che Aggioli coglie per dare conto di alcune verità di fatto, che si mostrano essenziali per comprendere la temperie culturale seguita al diffondersi della dottrina fascista, la quale nelle aspettative dei suoi maggiori teorici non concerneva solo l’ordinamento e l’indirizzo politico della nazione, ma, come affermava Gentile, “tutta la sua volontà, il suo pensiero, il suo sentimento”. Attraverso la figura di Enrico, il regista ci offre la metafora di una follia che sembra essere quella di un intero popolo, vittima della “grande rivolta guelfa”, che seppe farsi beffa dei teoremi politici, dei sillogismi filosofici e che, grazie al culto della nazione, fece breccia nei sentimenti di quanti ne riproducevano i vuoti proclami come un rosario, solo meno convulso di quello autistico di Enrico.
Angelo è invece scisso tra il tentativo, tra l’altro ben riuscito, di doversi fingere matto e la necessità di gridare al mondo la verità, quella verità che per convenienza deve celare, ma che forte pulsa sotto la maschera della pazzia. Ad un certo punto confessa ad Enrico la sua verità biografica, perché non si può vivere a lungo cancellando il proprio nome, la propria storia, senza cancellare se stessi quale frutto ed espressione di quella storia. Nel momento della rivelazione della realtà Enrico intuisce, pur nella sua pazzia, la vanità di tutto ciò in cui aveva creduto ma non trova altra soluzione se non quella di coprirsi il viso con delle maschere lasciategli dal padre, e che “gli tengono compagnia”, per continuare la recita quotidiana. Enrico  interpretato da Aggioli che ne rende superbamente tic, fobie, paure  così, si sdoppia e impersona ora il duce – del quale recita brani della dichiarazione di guerra con cui l'Italia è entrata nel secondo conflitto mondiale, o brani inerenti alle leggi razziali  ora indossando un'altra maschera, come quella dell’infermiera di cui si è innamorato. Una vis tragi-comica irresistibile quella del matto Enrico, che travolge anche la volontà di Angelo, che si presta a imitare Luciana (l’infermiera) per indurlo a calmarsi. L’imitazione di Luciana, i tic di Enrico, suscitano nel pubblico riso, un riso che, però, ben presto si fa amaro, doloroso e inquieto, soffuso persino di lacrime. Il pubblico, infatti, è chiamato al ruolo di testimone di colui che, come parresiaste, si appresta a dire la verità, che intanto esiste perché è condivisa, compresa, saputa, assimilata, digerita e indelebile rischiara la mente contro le mistificazioni di ieri e di oggi.
E, paradossalmente, la storia più autentica, perché cifra del modo di fare tipico delle dittature, è testimoniata proprio della sorte di Enrico che viene deportato dal manicomio, lui, matto indifeso, poiché rappresenta un fastidio per un regime che dell’uniformità ha fatto il suo vessillo. Per un regime, affermava Hannah Arendt, che mira a organizzare gli uomini nella loro diversità come se costituissero un solo individuo e intanto può farlo soltanto perché riduce gli uomini a un solo fascio di reazioni scambiabile con qualsiasi altro. Ma la spontaneità, peculiarità dell’essere umano, non si uccide facilmente; vi saranno infatti sempre coloro che lottano perché come ci insegna Lev Tolstòj “per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttar via tutto, e di nuovo ricominciare a lottare e perdere eternamente”.

 

 Gli Ebrei sono matti

 regia Dario Aggioli

 con Dario Aggioli, Angelo Tantillo

 voci registrate Stefania Papirio, Marco Fumarola

 registrazioni vocali Marco Fumarola

 costumi e scene Arianna Pioppi, Medea Labate

 maschere realizzate in gioventù da Julie Taymor

 organizzazione Carla Damen

 prodotto in collaborazione con Teatro SpazioZeroNove 

 Spettacolo dedicato alla memoria del Prof. Ferruccio Di Cori

 Caserta, Teatro Civico 14, 17 febbraio 2013

 in scena dal 16 al 17 febbraio 2013

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