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Sunday, 03 May 2015 00:00

La filosofia ai tempi della crisi

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Circa un anno e mezzo fa, ho fatto un sogno terribile. Ricordo che mi trovavo in un ambiente familiare, era uno strano connubio fra diversi luoghi che solitamente frequentavo: aveva qualcosa di San Marcellino, qualcosa del parco del vulcano Montenuovo, qualcosa del cortile dell’università di Porta di Massa. Nonostante la mia mente avesse creato una sintesi di ambienti reali, al tutto aggiungeva una sorta di atmosfera fiabesca. Ero lì con i miei compagni di studi, e discutevamo dei massimi sistemi e del nulla, come spesso ci capitava di fare. Ma a un certo punto l’atmosfera fiabesca cedeva il passo a luci tetre e sopraggiungeva un senso di angoscia, un’ansia che non mi riuscivo a spiegare. Poi, improvvisamente, mi rendevo conto che c’era Qualcosa che mi stava raggiungendo, e abbandonavo i miei amici alle loro speculazioni e cominciavo a correre. Inizia così il mio terzo anno di università. Mi risveglio dal sogno, e comincio a correre.

Questa corsa porta i suoi primi frutti circa un paio di mesi fa, quando sono riuscita a conseguire la mia laurea triennale in filosofia, con votazione centodieci e lode, alla sessione straordinaria di febbraio. Sono riuscita a laurearmi in tre anni, dopo un inizio non proprio orientato verso quest’obbiettivo. Il primo anno ho sostenuto tre esami; il secondo anno ne ho sostenuti quattro. In tutto sette su diciassette. Non per pigrizia. Il mio studio era appassionato e approfondito. Non mi limitavo a studiare il programma d’esame, ma facevo ricerche mie, leggevo tutti i libri fra cui il professore ci chiedeva di scegliere, discutevo e ragionavo sul nocciolo del programma d’esame con i miei compagni di studi, solitamente a San Marcellino, o al parco del vulcano Montenuovo, o nel cortile dell’università di Porta di Massa. Non ho mai pensato che il mio studio fosse orientato al mero esame. Lo studio era per me un’occasione di crescita personale, di maturazione profonda che non si ottiene imparando a memoria i libri consigliati dal professore, ma soltanto tramite riflessioni e confronti con chi, come te, non sta studiando per prendersi un pezzo di carta, ma per cercare di capire un poco di più questo mondo. D’altronde, la scelta di un corso di studi come quello di filosofia raramente può venire da chi lo fa semplicemente per prendere un titolo da spendere nel mondo del lavoro. Se era al mondo del lavoro che pensavamo, non ci saremmo iscritti a filosofia.
Personalmente – ma credo che il mio punto di vista personale non sia troppo lontano da quello di tanti altri miei compagni di studi – da quando sono bambina non ho mai fatto scelte che fossero decise in base al contributo che da queste potevo ottenere per poter trovare lavoro un giorno. Ricordo quando scelsi di frequentare il liceo classico le facce allibite dei miei genitori, che si chiedevano perché volessi impegnarmi tanto in studi che non approfondiscono nulla di ciò che oggi è richiesto dal mercato del lavoro. Ancora più pallidi i loro volti quando tre anni e mezzo fa esprimo la volontà irremovibile di iscrivermi al corso di laurea triennale in filosofia presso l’università degli studi di Napoli Federico II. Qualche discussione ammetto ci fu, ma credo che non ci fosse mai stata la reale intenzione di distogliermi dalle mie aspirazioni, ma solo la voglia di vedere quanto realmente desiderassi compiere quel percorso. Posso dire che ventuno anni della mia vita li ho passati in quel giardino incantato che ho sognato, a riflettere e a studiare. In fondo filosofia vuol pur sempre dire amore per il sapere, e l’amore è sempre disinteressato. Così, disinteressatamente, amavo con tutta me stessa lo studio, senza mai subordinarlo a secondi fini come la ricerca di una professione. Ma un anno e mezzo fa, l’incubo che ho fatto mi ha scosso profondamente.
È vero che ho cominciato a correre con un ritardo di circa ventuno anni, ma poi ce l’ho messa tutta. L’ansia profonda che non mi faceva dormire la notte è stata anche il motore di questa corsa. Mi ero sempre detta che comunque ero una persona in gamba, e coltivare la mia intelligenza sarebbe stato come rafforzare le mie gambe per il giorno in cui avrei dovuto cominciare a correre. Poi è venuto quel giorno, e ho corso veloce. Non posso più “perdere” tempo, mi dicevo. Niente più tempo “perso” in riflessioni personali, in speculazioni con gli amici, in ricerche fuori dal programma di studi. Esami su esami. Dieci in un anno, e poi la preparazione della tesi. Certo, il tutto fatto sempre con amore, ma stavolta anche con l’ansia di dover affrettarsi per non farsi raggiungere dal Mostro che mi inseguiva. Ma per quanto corressi veloce, sentivo sempre il suo fiato sul collo e sempre ero sicura che stesse per raggiungermi. E poi la decisione più difficile: non completare il mio percorso di studi in filosofia.
Tante solo le motivazioni con cui giustifico la mia scelta: mi dico che in fondo, se amo davvero quel sapere ormai dimenticato dai più, lo posso studiare da sola; mi racconto che poi non è detto che da adulta io non possa decidere di riprendere questo percorso accademico; mi ricordo le mie aspettative disilluse dall’università che speravo fosse tutt’altro. Ma in fondo la conosco la ragione della mia scelta: non c’è più tempo per l’amore disinteressato per il sapere, devo studiare qualcosa che mi serva per il mondo del lavoro. Ma cosa studierò allora? Per rispondere alle mie domande ho passato le giornate su Almalaurea, a guardare le statistiche sull’occupazione dei laureati. Stavolta niente più amore disinteressato, la scelta sarà decisa dalle statistiche di Almalaurea: il corso di laurea che si dimostrerà maggiormente spendibile nel mondo del lavoro e più breve da compiere – ho già ventidue anni! – sarà il corso di laurea con cui continuerò i miei studi. Faccio ricerche su ricerche. Esco meno che ai tempi dello studio folle dell’ultimo anno di università. Imparo a memoria i dati raccolti da Almalaurea, e mi oriento verso un nuovo percorso di studi.
Quel mostro che mi rincorre si chiama Crisi. Non sta rincorrendo solo me, ma tutta la mia generazione. È un mostro fagocitante di futuri. Se non corri veloce, arriva a te e si mangia il tuo futuro. Ne parlano continuamente i giornali e la televisione, che ti mettono in allarme. Ma le prove più angoscianti della sua venuta le vedi per le strade, quando incontri una manifestazione di disoccupati, quando riconosci nuovi volti a chiedere l’elemosina per strada, e le provi sulla tua pelle quando invii più di quattrocento curriculum in un mese, e nessuno ti risponde.
Essendomi laureata a febbraio, ho deciso di investire questi sei mesi cercandomi un lavoretto, mentre cerco di capire in che direzione continueranno i miei studi a settembre, quando potrò nuovamente iscrivermi all’università. Delle quattrocento aziende che ho contattato, dopo più di un mese, due mi hanno chiamato a colloquio. La prima credo che non si farà sentire perché non ho esperienza lavorativa in quel determinato settore. L’altra, che si occupava di vendita di servizi porta a porta, mi ha detto che potevo cominciare da subito, ma non mi ha assicurato alcuno stipendio. Ho deciso di non mandare più curriculum per adesso. Non mi serve un lavoro non stipendiato e soprattutto che non mi piace. Non posso dimenticare, di quando facevo la promoter, la grande insoddisfazione derivante dal fatto che nessuno si fermava a parlare con me e a darmi l’occasione di mostrare il mio sapiente uso della dialettica, perché le altre ragazze, che svolgevano la mia stessa mansione e attiravamo maggiori clienti, rispondevano a dei canoni estetici cui io non potrò mai corrispondere, o almeno così pareva sotto il quintale di fondotinta con cui si imbellettavano e dentro i vestiti aderenti che indossavano. Ma il ricordo di quell’esperienza che più suscita la mia frustrazione è quello della scoperta che anche io sapevo attirare un piccolo pubblico di interlocutori, ricorrendo a strategie insulse come fermare la gente con finti complimenti. La scoperta che avrei potuto usare le meravigliose armi della persuasione per dire a qualche potenziale cliente “ma che begli occhi che hai!” così da interessarlo a me mi lasciò, dopo l’iniziale gratificazione di esser meglio riuscita nel mio lavoro, un profondo vuoto e la consapevolezza che non potevo piegare le cose che avevo imparato nei miei studi per scopi così bassi. Nel frattempo, dall’altro ieri, Almalaurea ha aggiornato i suoi dati, inserendo le statistiche inerenti l’occupazione dei laureati in riferimento all’anno 2014. Le controllo un po’ e mi scappa una risata isterica. I dati allarmanti del 2013 hanno lasciato il posto a quelli tragici del 2014. Il livello di occupazione scende, e anche i corsi di studio cui stavo pensando di orientarmi “perdono punti”. La crisi corre più veloce di me.
È del settembre 2012 l’articolo del Corriere della Sera, Perché ha senso iscriversi a filosofia (anche per trovare lavoro), dove il giovane filosofo e storico della filosofia Diego Fusaro, ricercatore al San Raffaele, combatte “il luogo comune” dell’inutilità dello studio della filosofia. Entusiasma, magari, a una prima lettura. Alla seconda già si leggono le contraddizioni evidenti di chi, prima, indica lo studio della filosofia come un percorso importante per chi vuole imparare a mettere in discussione la società, e quindi indica il suo valore a prescindere dallo sbocco lavorativo, e poi aggiunge che iscriversi a filosofia dà tanti sbocchi lavorativi e che all’università San Raffaele i dati di Almalaurea indicato che l’85% dei laureati trova lavoro entro il primo anno. Insomma, iscriversi non per trovare lavoro, ma in fondo per trovare lavoro. Va bene. In fondo è finito anche il tempo in cui sono attenta a leggere le contraddizioni, ora voglio solo un lavoro. Esploro il sito dell’ateneo San Raffaele, emozionata come una ragazzina leggo il piano di studi e i programmi d’esame, fremo nuovamente d’amore per il sapere (di quello che però poi mi dà un lavoro!) e niente, dopo pochi minuti, il mio entusiasmo è frenato dalla lettura dell’importo delle tasse: circa seimila euro l’anno. Con borse di studio per il merito eh, circa cinque per tutti gli studenti e di importo pari a cinquecento euro. San Raffaele ti sei superato. Addirittura, se faccio parte dei cinque fortunatissimi, mi tocca pagare soltanto cinquemulacinquecento euro l’anno. Certo mi resta solo il dubbio di, se avessi avuto un reddito tale da permettere un’università così costosa, cosa me ne fregava del lavoro: vivevo di rendita.
Diego Fusaro è del 1983. Ha la stessa età del mio relatore. Non intendo il docente di ruolo dell’università, quello che formalmente è il mio relatore. Intendo Salvatore. Lo chiamo Salvatore perché così mi ha sempre detto di chiamarlo. Non ha ufficialmente alcun ruolo all’università. Non c’è uno stipendio per lui. Ma non si può dire che non ha un lavoro: è lui che segue tanti ragazzi per la preparazione della tesi, è lui che aiuta il professore a preparare il programma d’esame ogni anno, e tiene anche qualche lezione. Salvatore se lo incontri fuori dall’università indossa la stessa felpa scolorita che indosso io, ha la barba sfatta e un sorriso enorme. Ha dieci anni precisi in più a me, ma non li dimostra. È ovviamente laureato col massimo dei voti e ha fatto il dottorato in Francia, prima de “l’era della Crisi”. È preparatissimo e svolge il suo lavoro con dedizione. Mi ha accolto, quando mi sono ridotta all’ultimo minuto per consegnargli la tesi da correggere, a casa sua. Tante volte abbiamo discusso per ore, e gli ho fatto saltare la pausa pranzo. Una volta è venuto all’appuntamento che avevamo all’università con la febbre, perché io avevo bisogno delle sue correzioni. Mi ha consigliato di leggere tanti libri, di cui al massimo un paio sarebbero stati utili per la tesi; il resto, mi diceva, saranno utili per la vita. Mi ha dato il suo numero di cellulare per telefonargli quando avevo delle difficoltà. Pensavo che Salvatore fosse un buon amico, ma in realtà lui faceva tutte queste cose non solo per me, ma per tutti gli studenti che seguiva. Salvatore da anni collabora con il mio professore, ma non c’è stipendio per lui. Tantissimi sono i “collaboratori” come Salvatore nella mia università. Forse alcuni mirano a vincere il bando per diventare ricercatore. Qualcuno ci riesce. Però è solo qualcuno, che è poco rispetto agli almeno venti ragazzi preparatissimi e disponibilissimi come Salvatore, che “collaborano” con i docenti di ruolo.
Salvatore ha anche grande pazienza, perché sebbene io sia una studentessa appassionata, sono anche una grande testarda. Quando mi suggeriva come fare per realizzare al meglio la mia tesi, non ricordo di aver mai seguito i suoi consigli. Dicevo che la tesi era mia, ed era l’ultima occasione che avevo per lasciare una traccia delle mie idee e della mia passione nel mondo della filosofia. Avevo spiegato a Salvatore che non avrei continuato con i miei studi di filosofia. All’inizio non mi prese sul serio, poi provò a convincermi, ora ogni tanto si preoccupa di segnalarmi qualche iniziativa che sa che mi può interessare. Mi ricordo quando ho chiesto a Salvatore di cosa viveva, non avendo stipendio, e lui mi ha risposto proprio come dovrebbe rispondere un filosofo, “di amore per la cultura e di speranze”. Io lo presi in giro per un po’, poi cambiai argomento, cercando di fare in modo che non si accorgesse dell’enorme stima, e dell’enorme invidia, e dell’enorme vergogna, che provavo.
Forse la Crisi mi ha già raggiunto, perché ha già divorato i miei sogni, i miei progetti, le mie speranze, le mie ambizioni. Ha fagocitato anche le mie ore di sonno. Quantomeno ormai è vicina, e posso guardarla meglio. Capisco che non l’avevo riconosciuta per ciò che era realmente. Non è la Crisi economica: è la mia personale Crisi d’identità. Avrei voluto scrivere qualcosa che fotografasse una generazione e le sue ansia, ma in fin dei conti non ho fatto altro che parlare di me e delle mie ansie, che non sono quelle dei miei coetanei: quelli che ha differenza mia hanno scelto fin da subito un corso di studi orientato al mondo del lavoro mi potranno definire come un’irresponsabile, e io so che sbagliano perché se ho scelto filosofia è perché ero sicura che la responsabilità che avevo verso me stessa mi imponeva di studiare l’unica cosa che amo; quelli che continuano i loro studi di filosofia, mi potranno dire che non ho abbastanza coraggio e passione, e forse loro hanno ragione.
Non ho idea di cosa farò l’anno prossimo. Non credo che i corsi professionalizzanti di web marketing, i master di management, il corso di laurea magistrale in relazioni pubbliche e d’impresa, mi avranno mai. Ho trovato anche una nuova mail nella casella di posta: un’azienda mi ha risposto e invitato a colloquio questa settimana per uno stage di marketing. Non credo che c’andrò. Napoli in questi giorni è bellissima e c’è un gran sole che fa bene alla pelle e fa bene all’umore. Lo stesso giorno del colloquio c’è una manifestazione cui mi ha invitato Salvatore. Inoltre, è ormai da giorni che i miei ex compagni di studi si riuniscono nel cortile dell’università di Porta di Massa a chiacchierare di filosofia. Infine, è da circa un annetto che ho L’essere e il nulla di Sartre sul comodino, e non l’ho ancora finito perché ero troppo presa dalle mie angosce. È difficile L’essere e il nulla e non si può leggere con leggerezza. Così, cominciando a leggerlo per poi abbandonarlo più volte c’ho capito poco. Ma ho capito che l’angoscia non è la paura di qualcosa di determinato, ma è il sentimento di fronte all’indeterminato. Nasce dalla consapevolezza di avere di fronte molteplici possibilità e di essere nulla, finchè non si sceglie. Ma scegliere non è facile, poiché implica un’assunzione di responsabilità da cui tendiamo a fuggire. Magari, ci accontentiamo di quasi-scegliere allineandoci al gruppo e a quello che il gruppo ha deciso per noi, in un atteggiamento di malafede. Ma questa non è libertà: la libertà implica il coraggio di scegliere e di autodeterminarsi a prescindere da ciò che è deciso dal gruppo.
In questi giorni ho anche guardato i miei diari degli anni passati, cercando di vedere se avevo scritto qualcosa riguardo alla scelta di iniziare il corso di studi in filosofia. Non ho trovato molto. Ho scritto, prima di tutto, “perché non potrei fare nient’altro”. E, poco più sotto, “per imparare a essere libera”. Quando l’ho letto mi sono finalmente rilassata, ho ricordato, ho sorriso.
Devo tenere a mente di non perdere di vista il mio scopo ultimo, imparare a essere libera.

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