“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 12 February 2015 00:00

Pirandello d'annata (1923)

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Pochi sanno che – nell’agosto del 1915 – Luigi Pirandello incontra sua madre, morta pochi mesi prima. Si tratta di una rievocazione letteraria e avviene in Colloqui coi personaggi: Pirandello se la rivede, quest’ombra diventata “ombra solo da jeri”, seduta sul seggiolone della casa di Girgenti, investita d’un riflesso caldo di sole, “fragrante di mare”, accanto a una vetrinetta piena di suppellettili da cucina mentre – dalla grossa finestra – entra il rumore dei carri, della solita vita. “Ma come Mamma, tu qui?” dice Pirandello, preso da una tristezza infinita, da un abbattimento letale. Muore così una seconda volta la madre – ci dice il racconto – giacché riapparendo com’era allora, la Madre certifica che quel tempo di Girgenti è finito, che Pirandello adesso deve pensarla defunta, sparita per sempre, diversa da com’era e da come continuava ancora a immaginarsela lui: nel sole, sul seggiolone, accanto alla vetrinetta. “Quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel cantuccio” adesso termina e Pirandello ne piange: “piango” – le dice – perché tu non puoi più dare “a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto”. Piange perché è costretto a prendere atto del presente, facendo terminare il passato.

La vita che ti diedi deriva dalle novelle La camera in attesa e I pensionati della memoria, ma ha in questo frammento di Colloqui coi personaggi la sua origine vera. Tra le meno rappresentate di Pirandello, rimane comunque un’opera di grande importanza e lo dimostra, per fare solo un esempio, l’influenza ch’ebbe su Eduardo: provate a comparare La vita che ti diedi a Dolore sotto chiave e vi troverete gli stessi temi (anche se poi declinati da De Filippo in maniera diversa): una persona morta fatta passare per viva lì; una persona morta fatta passare per viva qui.
Un regista – in La vita che ti diedi – può trovare la camera della tortura, la suggestione del rapporto tra apparenza e realtà, lo sgretolamento già in atto del dramma borghese; può trovare il tema del ruolo imposto (la maternità vissuta come ossessione), il simbolismo delle atmosfere (si pensi alle battute dedicate alla luna, da mettere in relazione con il cognome della protagonista), il gioco dell’invocazione di personaggi e vicende, l’eversione del metateatro; può trovare – come fece Massimo Castri in un allestimento di una trentina di anni fa – il complesso edipico e tutt’un intreccio psicoanalitico tra madre, figlio defunto e giovane amante del figlio defunto, basato su sessualità trattenuta, concupiscenza segreta, blocco incestuoso e un atto procreativo che ha, per contrappasso, la morte.
Marco Bernardi, invece, non vi trova altro che un ritorno al passato ma in senso tutto recitativo, ovvero: all’interno di una scenografia interessante costringe attori ed attrici a un’interpretazione da vecchia accademia, stilisticamente in linea coi parametri in voga quasi al tempo del “grande attore”. Quindi gestualità marcata, grandi sospiri, sovratoni melodrammatici, insistenza di sguardi, pose magniloquenti, calcatura vocale e strepiti, pianti tragicamente esaltati, grida e sussulti, tremori alle mani, un “è vivo” detto con voce da cataclisma: il tutto in un contenitore che prevede quarta parete (per Pirandello, che la quarta parete la fece crollare in Italia nel '21); variabilità delle luci per segnare il momento del giorno o della sera; qualche effetto previsto dal copione (lo spostamento della sedia, il balcone che si apre, la tenda che si gonfia) reso con tecnica che funziona.
Si dirà che questo è il testo e che Bernardi lo segue alla lettera, didascalie comprese; che fa operazione filologica, rispettosa restaurazione di recupero, esposizione rigorosa; che siamo nel solco della tradizione che si ripete facendosi tradizionalismo di buon livello. Sarà pure vero, ma poiché il valore della ripresa di un classico si misura nella capacità registica di reinterpretare il classico stesso – pena, altrimenti, soltanto la sua riedizione museale – quali sono le aggiunte personali che Bernardi fa a una composizione che è del 1923?
La nota più interessante riguarda – come accennato – la scenografia. La “stanza quasi nuda e fredda, di grigia pietra, nella villa solitaria” abitata da Donn’Anna diventa un interno candido, bianchissimo quasi per intero, e distorto, inclinato verso la platea e ristretto sul fondo. Due le ragioni: la deformazione spaziale è la metafora della deformazione mentale della protagonista, incapace di osservare le cose per quelle che sono (un morto è un morto ma lei lo pensa ancora vivo); la scelta cromatica del bianco deriva invece dalla voglia di gelare il luogo medesimo, di farne un contenitore ghiacciato e perciò immodificato ed immobile al tempo che fu, quello in cui il figlio di Donn’Anna aveva i capelli biondi, gli occhi ridenti e sembrava un fanciullo.
A questa buona intuizione s’aggiunge molto poco, quasi nulla: la sfumante luttuosità degli abiti della protagonista che – passando dal nero pieno al mezzo nero e poi a un abito grigio con fiori verdi – marca il progressivo rifiuto della morte; il contrasto del vestiario d’epoca indossato da chi penetra in casa (tonalità varie di beige) e chi nella casa vi abita (stoffe scure); i bei momenti (voluti da Pirandello stesso) in cui tutti i personaggi sono assenti e agli spettatori non resta che contemplare l’ambiente, il suo silenzio assoluto, certi spifferi di vento intuibili, un raggio che penetra da destra o sinistra, le piante, la luce della stanza laterale, al massimo qualche voce che giunge dalle quinte.
Fatta eccezione per queste – che riguardano più la forma che la sostanza del dramma – nessuna novità: Bernardi trascina le pagine de La vita che ti diedi sul palco e lo fa costringendo i suoi attori a un impegno mimetico da mezzo Novecento, come se nel frattempo non vi fossero stati cinquanta e più anni di teatro a svecchiare e modificare e rigenerare la maniera di rendere Pirandello. Così troviamo le pose fisse, i momenti di calcolato silenzio lirico, certi brevi sorrisi di maniera; così troviamo tutto il campionario d’araldiche e vetuste mosse inteatrate che pensavamo fossero reperto di vecchie foto e che vengono riproposte nel 2015, come se la vita che si diede La vita che ti diedi fosse destinata a continuare, inesorabile, ancora.
Così questa vicenda in tre atti – nella quale una madre si ostina a non ammettere la fine del figlio, per non ammettere il suo stesso cambiamento di condizione – diventa paradossalmente una metafora della regia di Bernardi e una battuta del testo aiuta a comprendere; dice infatti Donn’Anna: “Figlio mio! Le tue carni! Te ne sei andato così misero, misero! E io… io t’imbalsamavo, vivo! Vivo t’imbalsamavo come non eri più, come non potevi più essere”.
Marco Bernardi tratta il testo di Pirandello come la madre tratta suo figlio: per tenerselo vivo lo imbalsama, costringendolo ad essere com’era ma come non può né dovrebbe essere più. Accettare invece che il tempo è trascorso, e che allora non è adesso, avrebbe aiutato a rendere La vita che ti diedi cosa diversa, un'opera cioè che – per dirla con l’espressione con cui Pirandello saluta definitivamente il ricordo di sua madre – “è qui, e mi parla, sentendo veramente le parole sue”, giacché è “realtà vera, viva e spirante”, nuova.

 

 

 

 

 

 

 

La vita che ti diedi
di Luigi Pirandello
regia Marco Bernardi
con Patrizia Milani, Carlo Simoni, Gianna Coletti, Karoline Comarella, Paolo Grossi, Sandra Mangini, Giovanna Rossi, Irene Villa, Riccardo Zini
scene Gisbert Jaekel
costumi Roberto Banci
suoni Franco Maurina
luci Massimo Polo
produzione Teatro Stabile di Bolzano
Napoli, Teatro Mercadante, 10 febbraio 2014
in scena dal 10 al 14 febbraio 2014




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