“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 07 January 2015 00:00

Amarillide

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Amarillide aveva vissuto per quarant'anni a Montequadrato senza troppi impedimenti. Era difficile per lei spiegare cosa volesse dire, né sapeva se e cosa fosse effettivamente cambiato nella sua vita. Le rimaneva solo una precisa sensazione di quello che era passato e di quello che adesso restava. Viveva in un appartamento in Via degli Ulivi n. 4, in una palazzina color pesco appena costruita sul limitare del paese circondato dalle campagne. Era sposata da quindici anni con Antheo e, tra momenti di crisi e di gioia, il loro rapporto di complicità e sostegno reciproco non era mai cambiato. Si erano conosciuti alla scuola media di Montequadrato e da allora non si erano più separati. Erano stati grandi amici e compagni di bighellonate fino alla quarta liceo, quando si erano irrimediabilmente innamorati. Se prima giocavano a schiacciarsi il naso con le dita, da quel momento avevano cominciato a passarsi le stesse fra ciocche di capelli con sguardo imbambolato e perso. Antheo era bello, Amarillide lo ricordava ai tempi della scuola, con il fisico magro e il viso elegante.

Ricordava con particolare attrazione due linee del suo volto: la precisa rima superiore del suo occhio, una piena e allungata semicurva, e poi quel solco serio che partiva dallo zigomo, finiva per un tratto giù lungo la guancia e si intravedeva solo quando chiudeva la bocca con decisione o quando, molle, lasciava il viso a riposo. Quando guardava quelle due linee Amarillide si dimenticava di respirare quasi a perderne la capacità. Gli occhi verdi di Antheo avevano sempre un che di malinconico e di lontano, ma le sue orecchie ascoltavano ogni cosa, sapevano accorgersi di qualsiasi vibrazione le circondasse. Più volte Amarillide aveva pensato vivesse tra due mondi. Ora era un po' ingrassato, non portava più i capelli corti e ossigenati, ma lunghi e del suo colore naturale; era ancora molto bello e affascinante, pensava Amarillide. Non avevano figli, non si erano mai prefissati di averne, ma avevano stabilito che se fosse capitato avrebbero accolto il bambino con impegno e amore, in caso contrario, avrebbero continuato a provvedere al sostentamento del loro piccolo covo domestico.
Amarillide era infuocata da molte passioni, tuttavia, tranne qualche particolarità del suo carattere, non si poteva definire una donna dalle doti eccezionali nonostante le velleità che l'avevano animata per tutta la vita. Aveva studiato Filosofia all'università di Villapinta, la città più vicina a Montequadrato, sostenuta economicamente dalla famiglia benestante che non le aveva mai fatto mancare nulla e l'aveva assecondata in ogni suo capriccio. Antheo, nel frattempo, aveva lavorato con impegno alla preparazione del loro futuro insieme. La ragazza era animata da grandi sogni, come ogni giovane della sua età, eppure non soffrì troppo quando dovette abbandonarne qualcuno, in fondo sapeva che le era concesso vivere solo una delle vite che affollavano la sua mente. Con le amiche spesso raccontava ridendo che cosa la sua gemella astrale stesse facendo in una di quelle vite che non aveva potuto costruire: allora ecco che una Amarillide botanico, una pittrice, un'altra esploratrice o pirotecnico si affacciavano nella sua mente. Soffriva un poco ma nel complesso si accontentava del suo lavoro. Amarillide nella vita si occupava di consegnare biglietti al piccolo teatro di paese, il quale non possedeva nemmeno un nome tanto era piccolo. Lavorava sei ore al giorno, dalle diciotto alle ventiquattro, le era concesso di assistere agli spettacoli più belli e, per di più, lavorava vicino a casa. Una delle cose che più le piaceva del suo lavoro era osservare e catalogare i tipi umani che le si presentavano: di ognuno di essi tentava di afferrare dettagli originali e tratti comuni appuntandoli sull'agenda durante i momenti di pausa.
Ogni sera, al tramonto quando usciva nei mesi invernali, o ancora in pieno sole in quelli estivi, Amarillide prendeva la sua vecchia bicicletta con il cestino riempito di fiori – chiamata per questo Fiorosa – e si dirigeva a lavoro attraversando Via Cotogna, Via Mirtillo e Piazza Castagno. Rincorreva il sole di settembre, un grosso tuorlo rosso e basso, oppure il sole estivo, alto e brillante come un disco dorato, o ancora le nuvole gravide di acqua lattiginosa tipiche dei mesi di ottobre e inizio maggio.
La maggior parte della giornata la passava da sola nella sua casetta ricca di oggetti ricercati e libri. La sua più grande paura era sempre stata quella di perdere il senno e di non riuscire più ad essere cosciente delle proprie azioni e della propria vita mentale, ma per fortuna questa possibilità non le si era mai presentata. Certo, a volte soffriva di piccole crisi isteriche o di sconforto, era attanagliata dalla verità di piccole ossessioni, in generale aveva uno strano modo di rapportarsi con gli altri, spesso le sue amicizie non erano del tutto sincere. Nella vita quotidiana era un po' pigra, faceva poca attività fisica e mangiava più del dovuto, ma nel complesso era sempre stata soddisfatta della sua personalità aperta e creativa, interessata e seducente. Aveva insomma sempre pensato di essere “giusta", di andare bene così com'era! Era cosciente del vuoto prodotto da questo tipo di termini, ma non se ne preoccupava più di tanto, poiché sapeva che fino ad un certo margine ciò che diceva corrispondeva a verità, pur con tutte le complicanze del caso, le quali certamente la interessavano.
Tuttavia, quel tredici di marzo lei non se la sentiva più di affermare tutto quello di cui era convinta. L'inverno era appena finito, non perché fosse scritto sul calendario, ma a causa di una profonda certezza interiore di Amarillide. Alle amiche diceva che la differenza era come quella che intercorreva tra l'osservazione del contagiri durante la guida e l'ascolto del motore: il motore diceva che l'inverno era finito, poco importava se si fosse arrivati a mille, ai duemila o ai tremila giri (questo modo di dire non piaceva molto alle amiche, ma per lei si trattava di una similitudine precisa). Quella mattina si era svegliata presto con una brutta sensazione.
Antheo era al lavoro e lei era tutta sola con Boccadoro, il gatto. Aveva fatto colazione leggendo un racconto di Guy de Maupassant, La collana, dopodiché si era lavata e aveva letto due o tre capitoli sull'intenzionalità in Edmond Husserl, poi, si era messa a spolverare qualche credenza e qualche fondo di soprammobile. Verso mezzogiorno aveva cucinato del pesce con contorno di patate e letto un altro racconto di Guy de Maupassant, L'ombrello. Dopo pranzo aveva lavato i piatti e poi letto ancora un po' di fenomenologia husserliana. In seguito, avvicinatasi alla libreria, aveva sfogliato un libro illustrato sulla natura e guardato sul mappamondo la collocazione precisa della Birmania. Tornando verso la poltrona si era osservata camminare e aveva constatato di averlo fatto con fatica. Girò ancora un po' attorno a sé ma si sentiva appesantita. Il Silenzio Atavico di quella casa la pervase e Amarallide fu costretta a berlo, a sentirlo nelle narici, a vivere pancia contro pancia assieme a lui. Si ribellò invano, quando con un colpo di tacco decise di uscire. Prese con sé Guy de Maupassante i tre saggi sull'intenzionalità in Husserl, si mise le scarpette a fiori rosa, il cappotto, la sciarpa con i pesci disegnati ed uscì.
Appena fuori fu invasa da una Montequadrato in festa. Era ancora carnevale! Da una settimana a Montequadrato era carnevale. Ogni giorno i bambini più grandi saltellavano in giro tenendo per mano quelli più piccoli, con i nonni, i cugini, gli zii, i genitori, gli amici che a gruppi stavano a scherzare, sui lati delle strade, adornati da collane-coriandoli, deridendo i compagni più arditi muniti di parrucche colorate. Amarillide era sola con Guy tra le braccia e Edmond nella borsa, si sentiva tremendamente fuori luogo. Ma Amarillide non era Simone Weil, lei era simile agli altri, non si poteva permettere il lusso di sentirsi diversa. Si diede un tono, non sapendo bene quale, e si diresse verso il parco cambiando l'espressività del suo passo tre o quattro volte. C'erano due gruppi di panchine: il primo occupato da una coppia di anziani signori e il secondo da un gruppo di ragazzi travestiti che giocavano a riempirsi di schiuma da barba. Passavano tutt'intorno famiglie più o meno felici. Amarillide si sentiva male, sola senza nessuno simile a lei cui poter esprimere tutti quei pensieri che continuavano a nascere nella sua mente. Si sedette sola in mezzo alla festa, forse al centro di essa, e cominciò a sottolineare questa frase: "[...] Noi esperiamo sempre e solo l'essere, mentre non esperiamo mai il nostro io [...]". Le sarebbe piaciuto poterne discutere con qualcuno. Pensava che avrebbe dovuto seguire qualche lezione buddhista sul distacco da ogni desiderio, forse era questo che le mancava. No, lei lo apprezzava il distacco, ma non avrebbe seguito quella strada. Avrebbe voluto prendere un uomo e parlare con lui di anima e avrebbe voluto che quello le rispondesse con parole inaudite. Lei gli avrebbe raccontato della sua paura, di come era stata attenta durante quegli anni e lui l'avrebbe con serietà ammirata. Poi sarebbe toccato a lui raccontare la sua storia e Amarillide lo avrebbe ascoltato con dedizione. Forse era semplicemente sola, forse avrebbe voluto semplicemente aprirsi a qualcuno, ma questo avrebbe voluto dire che lei in realtà non lo faceva! Allora non andava tutto bene. Eppure sul quaderno in cui ogni giorno appuntava il suo stato d'animo non comparivano segni di sofferenza evidenti, ma ora pensava alla vergogna, al Signor Silenzio Atavico, quel sentimento strano, quel bisogno nuovo... "in quanto io che è fungente nel suo avere il mondo".
Una musica l'aveva distratta dai suoi pensieri, l'aveva fatta tornare alla sottolineatura di fretta e, infine, l'aveva definitivamente attratta mentre alzava la punta dell'evidenziatore dal foglio: era il suono di una fisarmonica. Si era poi persa in riflessioni profonde sul significato e la bellezza della musica, le quali furono interrotte dall'apparizione di un essere sovrannaturale – forse uomo, forse donna – stretto in una tuta bianca ricamata. Quella giovane figura aveva boccoli ramati che cascavano sulle spalle e gli coprivano leggeri e sospesi il viso, che ispirato gettava all'indietro, la bocca si apriva in smorfie dolcissime, rincorrendo l'altezza delle note che produceva il suo strumento. Sotto il collo portava due spessi nastri intrecciati che circondavano morbidamente le spalle e poco più in alto un berretto a forma di campanula – cosparso di stelle su una tinta blu notte – il quale non era riuscito a tenere intrappolati i suoi capelli selvaggi. Quando Amarillide aveva posato lo sguardo sui suoi piedi si era stupita di fronte alle sue scarpe, sulla cui punta stavano due occhi di plastica adagiati su un naso di polistirolo colorato di rosa. Ma, più di qualsiasi altro dettaglio, l'aveva colpita il viso estremamente regolare e ovale, che la guardava con uno sguardo strano, insostenibile. Quella creatura suonava per Amarillide producendo in lei un effetto ora di repulsione, ora di attrazione. Husserl da terra la chiamava con aria contrariata, ma una voce più forte le teneva le pupille inchiodate su quella meraviglia che d'un tratto Amarillide tentò di afferrare, ma essa scappò a gambe levate verso un punto imprecisato tra l'incrociarsi di individui sulla strada.
Amarillide tentò di ricomporsi da quella visione, si sistemò la coda di cavallo con l'ampio elastico color corallo e la sciarpa. Infine, si alzò pensando che ormai non aveva più nulla da fare fuori e se ne tornò verso casa facendo il giro largo, nella speranza di incontrare qualche viso conosciuto per poter scambiare due chiacchiere. Ma presto si vergognò di quel pensiero, di quella ammissione di debolezza, di sottomissione alla solitudine, proprio lei: la bambina, la ragazza e la donna che non aveva mai avuto paura di restare sola, colei che avrebbe trovato, con le sue sole forze, una via di riassestamento nel momento del malessere. Era incapace di essere vittima del vuoto: di questo amava vantarsi. Così tornò indietro e ripercorse la strada, più breve e meno frequentata che aveva preso all'andata.
Arrivata davanti al cancello della palazzina, Amarillide riconobbe la macchina di Antheo parcheggiata, e felice di poterlo abbracciare saltellò per tutto il cortile, incurante per un momento di ciò che gli altri rappresentavano – soltanto la vecchina scorbutica Amarantola la stava osservando indignata, dal terzo piano, con sottobraccio il sacchetto di plastica contenente cibo per ratti. Su per le scale incontrò il vicino indiano, il signor Ankur, e allegra gli fece un profondo inchino ridendo. Arrivata al pianerottolo aprì la porta di casa fischiettando, ma quando entrò non vide la giacca di Antheo, né la sua figura stanca stesa sulla poltrona ad aspettarla, forse era andato a fare qualche commissione urgente per la madre, come spesso accadeva da quando si era ammalata. Amarillide era di nuovo sola. Fu sola per i successivi dieci, venti, trenta, cinquanta minuti: quando si richiuse la porta alle spalle per andare a lavoro era a pezzi. Guy sembrava non bastarle più, eppure lei aveva passato anni felici insieme a lui.
Prese la bicicletta Fiorosa e si diresse a lavoro facendo il giro largo per godersi ancora un po' il sole, per un momento libero dalle nuvole, e la visione dei campi ricoperti dalla leggera nebbiolina dorata di fine giornata, infine si gettò nel centro di Montequadrato.
Attraversò Via Bagònghi e Via Guillaume, quando a un tratto una grande tenda a strisce le rubò il sole che stava assaporando sul viso. Amarillide vi si fermò davanti e posò un piede a terra sistematicamente, come incantata. Le tornò alla mente un sogno di quando era bambina, in cui i protagonisti di un circo – come quello aveva davanti agli occhi – l'avevano guidata sulla cima di una montagna per mostrarle che cosa fosse la vita. Ripensò a quel ragazzo magico con la fisarmonica, dunque non era stato una visione! Parcheggiò la Fiorosa a lato della strada e, nel Silenzio Atavico che l'aveva seguita da casa, decise di sprofondare in quel magico luogo magnetico, abbandonato e solitario dopo la festa, circondato da un terreno di fili colorati e coriandoli trascinati qua e là dal vento.
Dal momento in cui mise piede in quell'antro misterioso, Amarillide sentì immediatamente tutta la sua organizzazione interna subire un sostanziale mutamento e ogni parte di sé cambiare posizione, colore, significato. Fu posta di fronte ad una pista circolare affollata dai più disparati personaggi da circo, mentre la zona sovrastante era occupata da figure volanti, da otto o nove trapezisti che si scambiavano di posto in dinamiche pose. Sospesa tra i due piani c'era una donna meravigliosa avvolta in un tessuto chiaro, con la mano tesa verso un gigante fenicottero rosa, così sublime da lontano, ma così inquietante da vicino, con il becco ridicolo e gli occhi arancioni, circolari. "Occhi temibili", pensò Amarillide, "su uno sfondo così buffo". Dietro il fenicottero c'era un clown vestito di giallo che tentava di avvicinarsi senza che l'animale se ne accorgesse con la mano pronta a strappare qualche piuma alla povera bestia, mentre al suo fianco un pagliaccio blu si rantolava per terra piangendo a causa dell'azione crudele del compagno. Un giocoliere tentava di divertire il pagliaccio blu lanciando clave su in alto, fino a sfiorare i trapezisti. Al suo fianco, il ragazzo che Amarillide aveva visto nel pomeriggio al parco accarezzava un uccellino, osservandola con lo sguardo magnetico che Amarillide aveva già sperimentato. Un mangiafuoco nerboruto dallo sguardo dolce sputava fiamme per impressionare una giovane contorsionista giapponese, poco più che diciottenne, sorridente ma risoluta a non concedere riconoscimento al mangiafuoco. Se ne stava sdraiata sulla pancia, piegata in due, con le gambe ad accarezzarle e solleticarle il volto, sul quale penzolava la coda di un camaleonte, seduto placido sulla sua testa. Dietro di lei un'altra contorsionista stava per arrampicarsi sulla gobba di un dromedario. Una cavalerizza scura e seducente, infine, se ne stava sul lato destro della pista, ornata di gioielli ed espressioni concitate mentre il suo cavallo tentava prendere il controllo su di lei. Al fianco di Amarillide si materializzò un uomo, probabilmente il padrone, nonché presentatore del circo, che la guardò dritta dritta negli occhi porgendole una mano guantata di bianco. Amarillide osservò incapace di comprendere, come se mai avesse visto un uomo o una mano o una mano guantata di bianco. Dopo un momento di titubanza però la afferrò convinta, e si lasciò condurre di fronte ad una corda tesa, sospesa in aria. Ad un cenno dell'uomo subito lei comprese cosa dovesse fare.
Amarillide alzò una gamba e in piedi su quel filo cominciò a camminare, accompagnata dagli schiamazzi di tutti che ora guardavano lei, la funambola, camminare in bilico. Il clown giallo le battè un colpetto sulla schiena, la ragazza si abbassò su lui mentre la battezzava donandole un naso rosso rosso. Amarillide allora ricominciò il suo percorso ridendo, stracciando pagine dal suo taccuino, acclamata, consapevole e, forse, felice.

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