“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 03 January 2015 00:00

Fino all'ultimo

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La vita è una ferita, ce lo dice Antonio Barracano seduto a testa bassa al centro della scena. È in abito scuro, ci dice che è morto. Alle sue spalle tutti gli altri personaggi, fermi, immobili. Sono sistemati a semicerchio come se lo avvolgessero, sono tutti attorno a lui. Attendono che Don Antonio dia il via e permetta a ognuno di giocare il proprio ruolo, perché nessuna iniziativa può essere presa, nella ferita che è la vita, prima che Don Antonio abbia dato il suo consenso. Solo dopo, lo spettacolo può cominciare.

La casa delle vacanze della famiglia Barracano è come uno squarcio della pelle, ha i lembi allargati e il fondo stretto. Soffitto e pavimento sono inclinati l’uno verso l’altro. Il teatro, non è che una ferita nella realtà e noi stiamo lì attenti a guardarci dentro, come curiosi che vogliano scorgere la nascita di infezioni. Nel mondo di Antonio Barracano le parti infette sono molte. Il ruolo che lui stesso si è dato è quasi quello di un medico: lo risanerà, lo renderà più quadrato.
Il sindaco del rione Sanità di Marco Sciaccaluga ha una messinscena sobria ed elegante, rispettosa del genio eduardiano lo riporta sul palco come fosse un testo di Shakespeare. Pochi elementi scenici, perché basta la parola ad evocare, attraverso la fantasia, l’immagine di agrumeti che arrivano fino al mere e, in lontananza, il bosco. I silenzi e la musica, lenta e intensa, a sottolineare le scene di maggiore pàthos.
Il lavoro di Guido Fiorato, per le scene, si concentra sull’essenziale. Ogni elemento è anche simbolo e ci racconta la storia di un uomo che si illude di poter cambiare il mondo. Tante sedie, un paio di tavolini, perché a chiedere aiuto a Don Antonio sono in tanti ma soprattutto, da un lato, la grossa scrivania di Barracano con la sedia più grande di tutte: una sorta di trono per quello che è quasi un re, un “sindaco”. In bella mostra, su un leggio rialzato sopra la scrivania, il grosso volume del codice penale.
Se ogni re ha uno scettro quale simbolo del proprio potere, Antonio Barracano ha il codice penale. Lo conosce bene, sa servirsene, sa come ingannarlo. Più di una volta, durante la rappresentazione, Don Antonio prende il grosso libro in una mano, lo solleva, lo sfoglia, lo lancia sul pavimento. Quello che propone ai suoi “sudditi”, che sono gli ignoranti, è una giustizia alternativa. Gli ignoranti sono l’alimento grazie al quale la società pasce, lui offre loro consigli, protezione, aiuto economico ma − soprattutto − cerca di evitare le uccisioni, i ferimenti. Prova ad insegnare ai figli il rispetto per i padri, cerca di spiegare loro quale sia il valore di una vita umana. Ma anche il tetto della sua casa è squarciato. C’è un buco quadrato come il mondo sopra la sua testa. Qualcosa non va, la prima cosa da aggiustare dovrebbe essere casa sua, il suo sistema di pensiero.
Con l’intervento per curare una ferita da arma da fuoco, si apre il primo atto. L’uomo che piano piano vuole curare il mondo ha un medico reale al suo fianco. Compagno inseparabile da più di trent’anni, è un vero e proprio doppio. Tutto il tempo della commedia è segnato dallo scontro tra i due diversi punti di vista, quello di Barracano e quello del medico, Fabio Della Ragione, che dopo anni di pance ricucite e proiettili estratti è arrivato a ricredersi circa la missione di Barracano. Salvare gli ignoranti è impossibile e il mondo non migliorerà mai. L’ultimo atto si chiude con una ferita che non vuole essere curata. Don Antonio decide di lasciarsi morire pur di non denunciare il suo ferimento, da parte del panettiere, al pronto soccorso. Lui soltanto, Arturo Santaniello, riesce a far traballare l’immagine di Barracano perché non ha paura di contraddirlo, di sfidarlo. Ma nei suoi confronti, il “sindaco” assumerà un atteggiamento che ricorda quello di Gesù messo sulla croce: “Perdona loro perché non sanno quel che fanno” ed, anche in questo caso, riuscirà a mantenersi in piedi e ad apparire vincente pur mentre tutto intorno a lui sta crollando. 
Il suo sistema si inclina, la casa si rimpicciolisce. Il soffitto, prima abbassato verso il fondo, adesso si abbassa di lato, sulla testa del “sindaco”, sofferente su una poltrona. Lui sempre fermo nelle sue convinzioni, continua a gestire e a tenere sotto controllo non più la vita, stavolta, ma la morte. Potrà farlo fino al momento di esalare l’ultimo respiro, poi tutto continuerà senza di lui e il primo a liberarsi sarà il medico, che sceglierà di non eseguire le ultime direttive di Don Antonio e di agire secondo la propria coscienza.
La commedia portata in scena da Sciaccaluga è moderna, il ritmo è serrato pur se non mancano momenti di attesa e di silenzio. Sono i momenti in cui aspettiamo le reazioni di Don Antonio agli eventi. Ci chiediamo: “Che cosa dirà? Cosa farà?” con la stessa preoccupazione che hanno i personaggi pietrificati intorno a lui sul palcoscenico. La musica ben sottolinea ognuno di questi momenti. C’è una canzone che ritorna e che Barracano ripete continuamente come una cantilena: “Don Luì, Don Luì dill'a me si vuò muri',dill'a me si vuò muri' ca 'o tavuto nce 'o facc''ì. E nce 'o faccio de legno de noce 'ncoppa ce metto 'na bella croce”. È la stessa canzone della Nuova Compagnia di Canto Popolare che, a fine spettacolo, accompagna gli attori in ribalta per gli applausi finali e risuona per la sala, alzatasi in piedi per omaggiare Eros Pagni e la sua prestazione.
Eros Pagni è un fortissimo Antonio Barracano. La sua voce, nonostante debba gestire un dialetto per lei inusuale, è la voce di Don Antonio. Il personaggio è suo, come se Eduardo glielo avesse cucito addosso e avesse scritto ogni parola e immaginato ogni gesto per lui. La sua presenza in scena è così incisiva che gli altri attori possono recitare come con leggerezza, in particolare i personaggi femminili. Le donne che circondano Antonio Barracano, nella versione di Sciaccaluga, danno tutta l’impressione di trattarlo come un “vicchiariello” da assecondare. Più che ammirazione o timore per la grossa personalità del capofamiglia, sembrano coccolarlo. Non vogliono guastargli il mondo. Così la convinzione di Armida, la moglie, che deve rispondere che per la ferita che le ha procurato il cane soffre più il marito che lei, si trasforma in accondiscendenza. Sa che al marito fa piacere che lei risponda così. Il tono comico che assume fa ridere il pubblico ma non scredita la figura di Barracano. Basta, ad Eros Pagni, pronunciare una parola, fare un gesto, tirare uno schiaffo di quelli che atterrano o, semplicemente, rimanere in silenzio per ristabilire la giusta gerarchia. Gli altri possono fare i comici quanto vogliono, lui è un uomo serio. Lo resterà fino alla fine, non abbandonando mai i propri ideali.
Il gioco si chiude con una citazione dal Riccardo II di William Shakespeare: la morte è povera cosa ma chiude una ferita mortale. È possibile trovare delle affinità tra le due ombre teatrali. Forse Don Antonio è un po’ Riccardo. Alessandro Toppi ha provato a capirlo, a spiegarlo proprio qualche mese fa.

 

 

 

 

 

 

Il sindaco del rione Sanità
di
Eduardo De Filippo
regia Marco Sciaccaluga
con Eros Pagni, Maria Basile Scarpetta, Angela Ciaburri, Marco Montecatino, Luca Iervolino, Federico Vanni, Massimo Cagnina, Orlando Cinque, Francesca De Nicolais, Dely de Mayo, Rosario Giglio, Pietro Tammaro, Gennaro Apicella, Gino De Luca, Gennaro Piccirillo
scene Guido Fiorato
costumi Zaira de Vincentiis
luci Sandro Sussi
musiche Andrea Nicolini
assistente alla regia Chiara Attinà
produzione Teatro Stabile di Genova, Teatro Stabile di Napoli
lingua napoletano, italiano
durata 2h 30'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 26 dicembre 2014
in scena dal 26 dicembre 2014 alll'11gennaio 2015

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