“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 08 November 2014 00:00

Esami e verifiche

Written by 

Al centro della mia attività cogitativa, un fastidioso ronzio circonda echi e rimbombi di confusione. Magari nelle nostre vene al posto del sangue scorresse alcool, almeno potremmo staccare la spina dai ricordi in qualunque momento.

Apro a fatica gli occhi, tra la gola e lo stomaco sento una colonna di cemento a presa rapida. Dalle palpebre semichiuse scorgo la fodera verde del divano di Frank, nelle narici si fa lentamente strada un puzzo stantio e asfissiante. Faccio pochi passi e i conti tornano. Le condizioni pietose in cui riversa la cucina ne fanno un’opera dadaistica. Piatti sporchi con residui di spaghetti appiccicaticci e scotti, bottiglie di vino e di liquori svuotate pure dell’inchiostro sulle etichette, bicchieri rovesciati a terra e una scatola di pomodori usata come posacenere. Amici, più gli stendi un tappeto rosso e più utilizzano te come zerbino. Per rimettere a posto servirebbero una tanica di benzina e un accendino. Guardo l’orologio, sono già le undici. Vorrei tanto dare una mano, ma tra venti minuti arriva il treno di Marilyn e devo essere alla stazione. Poi ho l’esame nel primo pomeriggio.
Non posso presentarmi a prenderla in questo stato pietoso. Dalla camicia madida di sudore e chiazzata di rossetto, sale il fondo di un profumo femminile da quattro soldi, sui pantaloni spicca vistosa un’incrostazione biancastra. Quella del secondo anno ha lasciato proprio il segno.
Entro nella stanza da letto, trovo Frank che dorme pancia all’aria e con la bocca spalancata. Affianco a lui c’è Amelie, la francesina in Erasmus del piano di sopra, avvolta nel lenzuolo come un bruco. La fasciatura di cotone ne mette in evidenza le forme plastiche del corpo, facendo notare le gambe tondeggianti e i fianchi sinuosi. Una bellezza non molto rara, ma affascinante nella sua apparente gentilezza. Frank si accorge di me tra veglia e sonno. Mi guarda stralunato, espressione intontita e capelli sconvolti.
Frugo nell’armadio: "Buongiorno".
"Cosa fai?".
"Ti rubo una maglietta", rispondo a voce bassa. "Poi ti spiego".
Fa un versaccio di approvazione ed infila la testa sotto al cuscino.
Vado in bagno, butto la camicia in lavatrice fra la sua biancheria sporca e mi sciacquo la faccia. Quando sono all’ingresso, mi ricordo dello schifo che c’è in cucina. Bisogna pur sempre sistemare. Vado di là, apro la finestra e controllo se ho dimenticato qualcosa. Corro alla fermata del bus, dopo pochi minuti passa quello per la stazione. Sono in ritardo, spero solo che a Marylin non venga in mente di avviarsi verso casa per farmi una sorpresa.
Appena arrivo, riconosco in lontananza la sua valigia rossa all’ingresso. Accelero il passo per andarle incontro. Mi schiocca un bacio sulle labbra e ci abbracciamo forte.
"Come stai amore?" mi domanda con premura.
"Lasciamo stare, mi tengo in piedi per miracolo".
"Perché, cosa è successo?".
"Niente, un po’ d’ansia per l’esame di oggi".
"È vero, me n’ero completamente dimenticata. A che ora, l’appello?".
"Alle sedici. Abbiamo il tempo di stare un po’assieme".
Provo a scherzare e far finta di nulla, ma il mio tono strozzato parla da solo. L’ansia mi tiene al guinzaglio come il padrone col proprio cane.
Marilyn mi cinge la vita, mi dà un morso sul lobo destro per gioco. Poi, insospettita dal mio aspetto stravolto, quando tento di baciarla si ritrae: "Odori di donna, mi nascondi qualcosa?".
"Ma che dici? Una vecchia in autobus si è lavata nel profumo. I finestrini erano chiusi e l’ho beccato tutto io".
La sua voce divertita conserva una punta di sospetto, come a concedermi la possibilità di parlare prima che sia troppo tardi: "Sicuro di non nascondermi qualcosa?".
Quando pronuncia questa domanda, siamo fortunatamente giunti davanti al portone di casa mia. Le tengo il cancello, Marilyn passa e va verso l’ascensore. La raggiungo, lascio che passi prima di me e prenoto per il terzo piano. In men che non si dica, la appoggio alla parete e le strofino il rilievo duro della patta contro la vita: "Si, questo. Vogliamo scoprire cosa si nasconde qui?".
Apro la porta di casa, la scaravento sul letto e comincio a spogliarmi in fretta. Il bello di abitare in una monocamera è di avere il letto vicino all’ingresso. Facciamo l’amore a fatica, lei si aspettava di più. Si avvia verso il bagno a rinfrescarsi, facendo trapelare un tocco di delusione dai suoi passi felpati.
"Tra poco è ora di pranzo", grida. "Che ti preparo?".
"Non ho fame, adesso voglio solo dormire. Fa’ come se non ci fossi".
"D’accordo".
Dalla sufficienza delle sue parole, capisco che ha mangiato la foglia. A letto, pochi minuti fa, credo di aver peggiorato soltanto la situazione. Solitamente la passione aggressiva dei nostri amplessi sfiora la violenza, ma oggi ho battuto la fiacca. È già molto aver retto fino alla fine.  
Marilyn esce dal bagno con il mio accappatoio addosso. Il suo esile corpicino ramificato in una pelle scura, quasi dorata, avvolto in quella veste così mastodontica, mi suscita un senso di tenerezza infantile, come una bimba dell’asilo con il grembiule di una taglia in più. Si avvia verso la cucina, lo scroscio del rubinetto e il tintinnio delle stoviglie provenienti dai fornelli mi guidano nel sonno fino a dissolversi. L’armonia di quei suoni così melodiosi accoglie la mia stanchezza e la tramuta in stravaganti percezioni oniriche, un miscuglio di colori e di malinconie.
Il rumore acido e snervante della sveglia mi penetra come un ago nel cervello. Marylin, che intanto si è sdraiata accanto a me, fa cenno con la mano di sbrigarmi. Mi alzo dal letto col cuore in gola, l’esame di storia medievale incombe sul cranio come una mannaia. Taglio una fetta di limone, aziono il bollitore. Il tè caldo è una doccia all’organismo, magari potesse lavare via anche le angosce. Sono sfatto, ho un cerchio planetario alla testa, la bocca impastata, il mal di stomaco. Non mangio da dodici ore, e se va male quest’esame, la seduta slitta di sei mesi. Porco mondo. Sorseggio l’infuso con calma, gli schizzi bollenti che mi scendono giù per la gola mi destano pian piano. Afferro tra i denti la buccia del limone e prendo a masticarla nervosamente. Corro in bagno, sputo quella poltiglia ruvida e pastosa nel cesso e mi butto sotto la doccia. Capisci che la giornata si prospetta difficile quando neppure la quotidianità riesce a rassicurarti. Esco dalla cabina vaporosa, sento le viscere arrampicarmisi su per l’esofago. Infilo prontamente la testa nel lavandino, rigetto anche l’anima assieme a quei rivoli bavosi di vomito giallognolo. Mi lavo i denti e mi vesto in fretta. Marilyn, nel frattempo, si è addormentata. Faccio piano per non svegliarla ma, appena apro la porta, sento che mi fa: "In bocca al lupo."
"Grazie".
"Si dice crepi".
"L’unica colpa del lupo è il suo più grande pregio, la solitudine. Oggi salviamolo questo lupo".
Pare non avercela più con me, questo mi alleggerisce.
Mi avvio all’università passando per una viottolo secondario, scavalcando alti sacchi d’immondizia e le avances di un gruppo di prostitute sulla cinquantina. A ogni passo, l’ansia cresce sempre di più, sento di stare in quei film horror dove l’assassino può uccidermi da un momento all’altro. Arrivo in facoltà fradicio di sudore, con la giacca di lino da strizzare e il fiato bloccato in gola. Lo scenario che mi si para davanti non è per niente rilassante. Gente che ripete con ossessione gli argomenti più disparati, seduti sui gradoni, a terra e fuori la porta dell’aula, occhi fissi sui libri e terrore stampato sul volto. Mi passano davanti gli ultimi quaranta giorni di studio, con la testa sui libri dalla mattina alla sera inalando la calura cittadina di fine agosto e settembre. Proprio non ci sto a farmi bocciare.
Sotto l’arco della porta dell’aula provo a sbirciare se c’è qualcuno che conosco. Mi sento toccare la spalla con due dita, mi volto e mi trovo davanti un tizio robusto con pochi capelli rasati, i residui di abbronzatura sul viso e due occhiali scheggiati a fondo di bottiglia che parlano da soli.
Dalla mia voce trapela un sussulto di spavento: "Salve".
"Buonasera".
Nel suo tono noto un tocco di sadismo, vuole subito puntualizzare chi comanda. Si avvia alla cattedra a testa alta come avesse la schiena di legno, si siede e prende a smanettare con il microfono: "Tutti i prenotati di storia medievale mettessero i libretti sul tavolo".
Dopo pochi secondi, e sulla scrivania si erge una muraglia.
In aula ci sono studenti di tutti i tipi, da quelli del primo anno che tentano di darlo via subito a chi lo riprova per l’ottava volta, da chi vuole tentare il colpaccio con l’esame difficile a me, che l’ho conservato per ultimo.  
Il professore chiama a conferire una ragazza, lei gli si siede di fronte tremando. Tirando un sospiro di sollievo, mi avvio verso il bagno. Mi siedo sul cesso come fosse un trono e comincio svuotare le viscere da tutto quello che ho bevuto ieri sera. L’ansia sembra essersi placata, ma mi accorgo di essermi fregato da solo. Ho scordato i fazzoletti. Alzo il pantalone e prendo dalla tasca posteriore un fascicoletto di fogli spillati piegati in quattro e li appallottolo per ammorbidirli. Solo dopo aver visto la mia firma, scopro che mi sono pulito il culo con la domanda di laurea che devo presentare tra tre giorni. Salvo complicazioni.
Faccio per rientrare in aula, ma sento piangere a singhiozzi. È la ragazza che ha inaugurato il giro della morte: "Mi ha bocciata di nuovo, ma ho risposto a tutto".
Non voglio neppure sapere le domande che le ha fatto, mi basta sentire questo. Scappo dentro, prendo posto affianco a un tipo che ripete come un forsennato: "Scusa se ti rompo", gli faccio. "Come sta andando la mattanza?".
"Bene. Per lui. Ne ha fatti fuori quattro, e non è passata neanche mezz’ora".
L’agitazione mi accarezza la gola con i suoi guanti di pelle neri. C’è ma non lascia tracce.
Ripasso velocemente la piramide feudale, quando sento il mio nome al microfono.
Mi avvicino alla cattedra con passi lentissimi, il corpo e la mente non sono collegati. Ci sono, ma coi pensieri cerco di estraniarmi il più possibile da questo inferno di lacrime e sangue.
Mi siedo di fronte a lui, ci diamo la mano. La stretta inconsistente e sudaticcia la dice lunga sulla lealtà di questo parassita. Se vuoi giudicare lo spessore di una persona stringigli la mano, da là capisci tutto.
"Allora," dice in tono fintamente ironico. "Meno uno alla laurea per lei?".
Tento di abbozzare un sorriso: "Si".
"Non è semplice. Lei lo sa, vero?".
"Fin troppo bene, glielo garantisco".
"Con me non ci vogliono le garanzie. Non sono uno strozzino, checché ne dicano i suoi colleghi studenti. Allora, mi vuol parlare di Federico II?".
Non gli lascio neanche finire la domanda che sparo a mitraglia.
Il professore, infastidito dalle mie parole, mi interrompe: "Cosa mi sa dire sui Franchi?".
Faccio il nome di Carlo Magno, ma dopo pochi secondi mi ferma una seconda volta: "La dinastia degli Ottoni, la ricorda?".
"Certamente, professore".
"Basta così. Si consideri fortunato. Oggi lei passa il suo ultimo esame con diciotto ed è l’uomo più felice del mondo. Un consiglio, stia sempre in guardia e non si fidi mai di nessuno".
Mi scrive con mano ferma il voto sul libretto: "Si ricordi, esistono esami e verifiche. Le verifiche si fanno a scuola, all’università e nei concorsi, gli esami capitano sempre, fino a quando non chiudiamo gli occhi. Lei oggi ha superato un esame grande, immenso".
"Grazie infinite, professore. Buon proseguimento di giornata".
"Non lo auguri a me, ma ai prenotati di oggi. Ne hanno bisogno, si fidi".
"Non ne dubito. Arrivederci".
Esco da là ancora più confuso di prima, le mie gambe si muovono da sole verso l’uscita. Improvvisamente sento una mano sulla spalla, una ragazza mi domanda preoccupata: "Com’è andata? Che ti ha chiesto?".
"I regni romanobarbarici, ma non ho risposto", le faccio io. "Mi ha bocciato, torno a novembre".
"Ma perché fa così, cosa pretende da noi?" sbotta a urlare lei.
"Dai, non preoccuparti. Ero io a non essere preparato, a te andrà senz’altro bene".
Le sfioro il faccino dolce con una carezza: "In bocca al lupo".
Mi avvio verso casa, svuotato da ogni macigno, ma colmo della fragilità di quel viso che, così pieno di preoccupazione, mi ha trasmesso un briciolo d’innocenza.

Latest from Paolo Leardi

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook