“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 11 August 2014 00:00

Dighero meglio di Fo

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Se c'è una cosa che proprio infastidisce a teatro è l'introduzione alle messinscene! Non se ne rinviene senso! Ogni volta l'interrogativo è introdotto dallo stesso avverbio: perché? Perché ce lo dovete spiegare? Perché credete che il vostro pubblico non sia all'altezza di una comprensione senza filtri? Perché non lasciare la libertà di sorprendersi ed interpretare, di risolvere finali aperti o rimanere in dubbio? O, forse, è la consapevolezza di non essere in grado di rendere appieno il senso dell'opera? Credete, forse, non sia sufficiente la vostra performance a tradurre lingue, o per meglio dire dialetti, più o meno sconosciuti? Avete mai assistito ad un Der Ring des Nibelungen o ad un Die Zauberflöte preceduti da un quarto d'ora di un tale chiacchiericcio?

Eppure, ci pare, che un'opera in lingua tedesca non sia, proprio, di immediata fruizione; ma lo si potrebbe dire anche de Le nozze di Figaro o della Madama Butterfly, benché, completamente, in italiano; allora si perderà il significato di parole, o intere frasi, ma il senso arriverà al petto con impeto, se chi lo canta sarà all'altezza drammaturgica delle sonorità musicali. E se è al metateatro il riferimento, individuate una strategia diversa, questa è fallimentare, questa sa solo di preconcetto. Ed il vostro pregiudizio ne produce uno d'identica forza: anche noi ci accingiamo a seguire lo spettacolo convinti che non sarà niente di eccezionale, preoccupati dalla noia che ne deriverà e dal fastidio di dover poi scrivere una recensione acida ed incollerita.
Ma non c'è sorpresa più gradita, a teatro, dello stupore; Ugo Dighero ci ha lasciati di stucco, fugando, così, ogni pregiudizio; la sua proposta – di due episodi dal Mistero Buffo di Dario Fo – ci coglie di sorpresa e ci rallegra. Pochi potevano fare meglio dell'autore, Ugo Dighero c'è riuscito. Una galoppata dall'inizio alla fine talmente avvincente da togliere l'istinto all'applauso, ci ha rapiti tutti, ubriachi di parole inconsuete o inesistenti, storditi dai sui movimenti precisi e regolari, serie ripetute alla perfezione in ritmi mozzafiato. Dighero è riuscito a dare, attraverso il vigoroso uso del suo corpo, maggiore suggestione al geniale linguaggio utilizzato da Dario Fo. La neolingua del premio Nobel, che richiama la logica della commedia dell'arte, generalmente rappresentata da artisti del popolo, utilizza il dialetto come strumento di comprensione, un misto di dialetti della Pianura Padana, per l'esattezza. Nella commedia dell'arte, i giullari (da qui il temine “giullarate” per i monologhi di Fo) spesso dovevano ricorrere a parole inesistenti con espressioni di tipo onomatopeico (il Grammelot), per sfuggire alla censura; questi, uniti ai vari dialetti locali, davano vita ad una lingua nuova, in grado di veicolare comprensione e risa. Dighero ne è padrone e, ancor più di lui, ne sono padrone le sue dita, le sue mani, le sue braccia, le gambe, i piedi, la schiena, la pancia ed ogni singolo muscolo del suo volto; non ci sono sbavature, né indecisioni, tutto è meticolosamente opportuno. Dighero, maestro in mimica e gestualità, ci regala un grande insegnamento: il valore della misura sulla scena.
Dall'opera di Fo, l'attore genovese sceglie Il primo miracolo di Gesù bambino e La parpàja topola.
Nel primo, ispirato ai Vangeli Apocrifi – dove si narra anche dell'infanzia di Gesù, quasi del tutto assente in quelli ufficiali – viene proposto uno dei miracoli di Gesù bambino, il primo cronologicamente, quando per ingraziarsi i suoi coetanei, “il palestina” decide di stupirli tutti trasformando l'argilla in uccello. Diventato il capogiochi, Gesù prende a far volare ogni tipo di animale forgiato dai suoi amici, diventando così l'idolo di quello stesso gruppo di bambini che prima lo scacciava. Quando giunge in quella stessa piazza il figlio del padrone della città, tutti si danno alla fuga, dinanzi alla potenza distruttiva del bambino viziato; Gesù, a quel punto, chiama in soccorso Dio, questi nega ogni intervento, scatenando così la fantasia del Figlio, che decide di fulminare il bimbo dispettoso, per poi resuscitarlo, con un calcio nel sedere, su richiesta della Madonna.
Nel secondo, di scena è la storia di Giovanpietro, un candido ed ingenuo capraio, e di Alessia, bella e florida fanciulla concupita da don Faina, un prete libidinoso e senza scrupoli. Quando la mamma di Alessia, la Volpassa, contadinona col cervello fino e il culo grosso, scopre la liaison che sua figlia intrattiene con il sacerdote, impone a questo di evitare lo scandalo trovando marito alla ragazza. La scelta ricade subito su Giovanpietro, talmente ingenuo da spendere tutta la prima notte di nozze alla ricerca della “parpàja topola” (la farfalla topolina, strumento per i giochi d'amore), che l'Alessia dice di aver dimenticato dalla Volpassa nella fretta, frattanto che, ovviamente, la ragazza e il prete possano consumare un nuovo rapporto. La disperazione di Giovanpietro, convinto di aver perso la “parpàja topola” lungo il periglioso percorso, porterà Alessia ad amare il suo giovane sposo.
Una terzo omaggio ci rende, poi, Dighero: una sua “lirica futuristica” sulla guerra in Iraq, in cui “un aereo che produce democrazia, con dieci euro al chilo te lo porti via”. Il riferimento è all'attuale guerra in Medio Oriente, dove a costo di tantissime vite umane, a costo di reiterati crimini contro l'umanità, a costo della violazione dei diritti dell'uomo sanciti dall'Onu ("Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri, in spirito di fratellanza".), l'inno della democrazia suona così: “produci, consuma e raggiungi la luna”. Una guerra il cui obiettivo è, ancora una volta “esportare democrazia, ma non la tua, la mia”.
Anche in questo caso l'attore è riuscito ad essere giusto, calzante, misurato. Un'ultima nota vogliamo esprimere prima di congedarci: è particolarmente coraggioso scegliere di “misurarsi” con un Premio Nobel della fama e bravura di Fo, Dighero è stato audace e non s'è risparmiato. Gli applausi finali, un'esplosione, sembrano essere effetto degli insegnamenti della serata: assolutamente “sul pezzo”.

 

 


Mistero Buffo
di
Dario Fo
con Ugo Dighero
produzione Pigrecodelta
lingua
italiano
durata 1h
Gubbio (PG), Teatro Romano, 7 agosto 2014
in scena 7 agosto 2014 (data unica)

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