“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 14 June 2014 00:00

Medea & Medea

Written by 

L’attrice entra indossando una maschera fatta di conchiglie e reggendo un candelabro. Sul palco vi sono candele, sassolini, specchi, conchiglie. Dagli altoparlanti esce il rumore del mare. Si toglie la maschera e si presenta: “Io sono Medea…”. Si toglie i monili e lo scialle. Rimane in sottoveste bianca, poi si lava le mani. E introduce la sua storia, confessando un senso di colpa per aver abbandonato la madre Idia nella lontana Colchide. D’un tratto una voce maschile ripete “traditrice”, mentre si diffonde una musica antica. E la narrazione si scioglie articolandosi in una dimensione emotiva che alterna la malinconia per l’illusione d’amore all’angoscia per le violenze subite, o di cui si è stato testimone. Che intervalla la sofferta rassegnazione della rievocazione alla lucidità del giudizio sulle dinamiche di potere degli uomini e degli dei. Alla fiera rivendicazione di una identità e volontà precise che non sono frutti della passione o del fato.

La Medea che ci ammalia con la sua tenacia affabulatoria è fermamente decisa a chiedere un risarcimento al mito e alla storia per la diffamazione subita nei secoli: si proclama innocente dinanzi alla platea degli uomini che hanno imparato a conoscerla come strega, maga ammaliatrice, figlia degenere, sorella traditrice, furia vendicatrice che non esita a privarsi dell’amore più grande – quello di madre – pur di colpire lo sposo fedifrago. Non è lei il mostro tramandato dai tragediografi greci o romani, dai poeti, dai pittori e dai librettisti francesi ed italiani. Casomai è una donna che ha creduto all’amore e si è fatta ingannare. Chissà, forse l’arrivo degli Argonauti sulle coste del suo regno era solo un pretesto ordito dal fato per unirla a Giasone e spingerla a Corinto. Ma lei ha consapevolmente accettato la parte, cercando con ogni mezzo di rispettare le leggi della giustizia umana e contrastare i soprusi. Rievoca l’amore: il corpo di Giasone si sostituisce alle sue palme. Ma Giasone e gli altri credono che lei si conceda solo per fuggire dalla casa del padre-re Eeta, che è un assassino. Medea aiuta Giasone a rubare il Vello ma viene ingiustamente accusata di aver ucciso il fratello Absirto. In realtà ne ha disperso i resti in mare, e il testo trova corrispondenza nel gesto scenico di svuotare un sacchetto di conchiglie. A Corinto cura i malati, e tra essi incontra la piccola Glauce e la madre di lei. Medea cura l’epilessia della fanciulla ma non riesce a destare la madre da un opprimente senso di morte. Segue allora costei, la regina Merope, che s’infila in un cunicolo che porta alle fondamenta del palazzo e vi scopre l’orrore: lì giace il corpo di Ifinoe, sorellina di Glauce, sacrificata agli dei (e la nutrice che le teneva le mani per rassicurarla, mentre veniva condotta a morte, non regge al dolore e si uccide anch’essa).
Che umanità è quella che non esita a sopprimere i bambini per ragioni di stato, per ribaltare la legge del matriarcato ed affermare la discendenza maschile, spietata e diabolica tanto da inventare il mito del rapimento della piccola Ifinoe pur di agguantare il potere? Un dolore da condividere col pubblico, a cui Medea offre pane d’orzo e uvetta, in un gesto che è segno di comunione concreta di sofferenze e speranze.
Intanto la molle Glauce cresce e non muore, sopravvivendo alla sorella, ma è debole, piccola, malata, sola… anche bella. Vengono combinate le nozze tra Giasone e la piccola Glauce. In scena Medea svuota coppe ed anfore, mentre una voce maschile la chiama.
Giasone si defila, le preferisce la giovane donna per puro opportunismo politico, assicurando al re una discendenza maschile per l’affermazione definitiva del patriarcato.
Medea è ancora sposa dell’eroe del Vello d’Oro, ma va discreditata, calunniata, resa invisa al popolo e alle donne che ne avevano riconosciuto la nobiltà d’animo. Il suo buon nome deve venire sistematicamente infangato, travisato, annientato. Ecco allora l’attuazione diabolica del piano che deve trasformarla in una spietata assassina: i suoi due figli vengono uccisi e la colpa fatta ricadere su di lei. Una drammatica rievocazione che si scioglie in un pianto rassegnato e terribile, ricordando le sue creature, le sue stelle.
Stringe due grandi conchiglie al seno mimando un abbraccio materno, e poi le depone. Prova lo stesso dolore che è stato di Merope, ma vince l’incombente follia con la capacità di praticare il logos, di raccontare, definire e spiegare la sua storia, le sue ragioni, i suoi sentimenti.
Delusa da Giasone e gelosa di Glauce, lei si sente nella maniera più assoluta umana. Non è una strega – come dicono i pastori di Corinto – ma una principessa esperta di arti mediche. La verità è che a custodia del Vello non c’era neanche un drago, ma solo un enorme serpente. Lo stesso Vello non è d’oro, ma solo ricoperto d’oro. La “strega” Medea non è lei. “Io sono Medea”, proclama fiera a conclusione di questa pratica di ricostruzione identitaria.  
Ricostruzione che si affida ad una regia funzionale e rigorosa, in cui gli elementi extradiegetici rievocano il senso del tragico euripideo a cui si oppone la modernità di una riscrittura memore delle analisi di Dürrenmatt e di Pasolini, oltre che della reinterpretazione operata dalla Wolf. A ciò si aggiunga una recitazione partecipata e misurata che trova in Laura Pagliara un’interprete-autrice dalle innegabili qualità espressive. E quando lei esce di scena porta con sé la riedificata principessa della Colchide che solo ora può riposizionarsi nelle pagine del mito. Solo dopo che ha ricostruito se stessa.  Medea si riveste e si rimette la maschera.

 

 

 

 

Io sono Medea
di Laura Pagliara
liberamente tratto da Medea. Voci
di
Christa Wolf
un’idea di Bianca Fenizia
regia Laura Pagliara, Fabio Pisano
con Laura Pagliara
e con le voci di Ciro Zangaro e Stefano Aloschi
scenografia Walter Pagliara
costumi Olga Vivaldi
musiche a cura di Laura Pagliara
tracce audio Andrea Balsamo e Antonio Natalino
produzione Adriana Monteriso
durata 45'
Avellino, Godot Art Bistrot, 5 giugno 2014
in scena 5 giugno 2014 (data unica)

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook