“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 28 March 2014 10:07

Conigli contro il tempo

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Continua a  far bella mostra di sé, al Godot Art Bistrot, la nuova scena britannica che rinverdisce i fasti del suono indie di fine anni Ottanta-inizi Novanta, quel movimento che spaziava tra la psichedelica più ipnotica e underground, i riverberi fuzz del garage americano, il minimalismo melodico d’impronta velvetiana e l’attitudine esecutiva, fra il timido e l’annoiato, di guardarsi le scarpe mentre si suonava (anche per non inciampare tra gli innumerevoli pedali per gli effetti).

Shoegaze, insomma, e basta questa keyword per aprire nella nostra memoria di massa mega e mega di ricordi sopiti da più di venti anni. E così dopo gli alfieri della prima ora Telescopes, che a dir la verità hanno modificato più volte il loro genere dopo la doppietta dei primi due album che davano la precisa idea del suono in questione (più noise-psichedelico Taste, più melodico e articolato il secondo e omonimo), hanno calcato il palcoscenico avellinese gli Underground Youth nello scorso novembre e ora i Dead Rabbits, loro compagni di etichetta (Fuzz Club Records).
La formazione di Southampton ha presentato in questo tour il nuovo full-lenght Time Is Your Only Enemy previsto per fine marzo-inizio aprile, lavoro prodotto da Lee Boss e registrato in un vero studio di registrazione, oltre allo studio privato del cantante Thomas Hayes, il quale condivide con l’altro chitarrista Neil Atkinson l’onere della composizione (almeno degli spunti iniziali delle canzoni, sviluppate poi a livello collettivo). L’album, previsto solo in vinile, segue un singolo edito in cd a febbraio di quest’anno contenente due tracce (più una ghost track) da esso estratte, quasi a mo’ di antipasto delle leccornìe soniche imminenti. Il concerto ha dato spazio anche a brani dal primo lungo ufficiale della band, The Ticket That Exploded (sempre su Fuzz Club) uscito esattamente un anno fa. I Nostri hanno in realtà “esordito” per la Flower Power Records con una serie di ep’s editi solo in formato digitale tra il 2011 e il 2012, materiale che è poi stato a volte riregistrato per le uscite su supporti reali.
Si comincia con We Want More dal prossimo lp, e subito si è retrodatati a più di trent’anni fa, con quel suono di tastiera a ricreare certe atmosfere dei primi New Order freschi orfani di Ian Curtis. La caratteristica che subito si coglie è l’attitudine della voce di Thomas a rimanere volutamente fuori tono, seguendo linee dissonanti per eccesso di veemenza e trasporto, quasi un John Lydon aperto a suggestioni meno plumbee dei suoi PIL per una cantilenante marcetta slowcore. You Came Along, edita nel succitato singolo Where I Go, omaggia proprio i Telescopes periodo Creation, con quel substrato di elettriche e tastiere far da sfondo al canto spiegato del leader. Un ritmo più sostenuto sorregge Should’ve Known Better, mentre le ombre danzano vorticose come nei migliori Southern Death Cult o nei Sisters of Mercy più elettrici. Le imprescindibili ascendenze velvetiane tappezzano I Don’t Care Where You Are di chitarre di velluto, mentre i sempiterni numi tutelari del postpunk più classico – i Joy Division, chi altri? – assistono all’esecuzione di Before I’m Too Late, quasi una Atmosphere accelerata. Il canto di Thomas cerca la tenuta con impegno e determinazione su un ritmo martellante e cadenzato ad esprimere l’urgenza di dire ciò che si prova prima che sia troppo tardi, prima che giunga l’insoddisfazione (“Sembra che non ne ho mai abbastanza di te / e di tutte le piccole cose che ti piace fare / e tu sei mia, e possiamo andare più in alto / del sole, andremo più in alto”). Richiami wave più marcati segnano Make Me Believe (come il precedente da The Ticket That Esploded) per denunciare un tentativo d’inganno (“Tutti loro fanno finta / e cercano di farti credere / che niente vada male / che non ci sia niente da vedere”). Da un ep del 2011, Heavenly Way, giunge Vanilla Skies nella versione presente sul prossimo album, funerea sinfonia memore dei Cure più “fedeli”, dove però la voce appare tremula e non sicura come la salmodia dark di Robert Smith. Ritmo maggiormente ipnotico per When I’ Blue, espressione di quella tipica oscurità indie che rifugge gli sviluppi melodici e che gli inglesi sanno fare tanto bene, dal suono volutamente involuto uggioso e circolare (“Quando sono triste di’ solo che sei mia / ti guarderò e saprò se è vero e giusto / tieni duro che non mi attarderò / canterò una canzone e la canterò male ma va bene lo stesso”). Chiude Here She Comes a suggellare un patto tra i PIL più minimali e i Jesus & Mary Chain più acerbi.
I Dead Rabbits conoscono bene gli originali a cui si ispirano, ma dai loro pezzi traspare l’urgenza di una esigenza compositiva reale e genuina che fa ben perdonare le ingenuità esecutive o l’incertezza della voce, piccoli difetti destinati a scomparire con il tempo e che lasciano presagire interessanti evoluzioni dello stile.

 

 

 

 

 

Dead Rabbits
Thomas Hayes (vocals, guitar)
Neil Atkinson Jr (guitar)
Suzanne Sims (drums)
Paul Seymour (keyboards)
Colin Fox (bass)
Avellino, Godot Art Bistrot, 22 marzo 2014

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