“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 25 February 2014 00:00

Una serata impegnativa

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“Devo andare in bagno”. La cena proseguiva spedita, ma lei aveva bevuto decisamente troppo. E poi aveva bisogno di un paio di minuti di pausa per rispondere ai messaggi. Questa cosa stava diventando peggio di un lavoro. Avere troppi galli nel pollaio era decisamente un toccasana per l’autostima, ma la stava snervando.

“Certo, ti accompagno”. Valeria era sempre tanto carina ed educata coi suoi occhioni neri e i capelli un po’ anni settanta. Avevano appena finito il giro di antipasti. “Ti sono piaciute le tartellette al tofu?” Esordì all’improvviso mentre attraversavano gli ampi corridoi della villa Belle Èpoque. “Quanti specchi…” “Sì, mia nonna era appassionata di specchi e cornici. Un vizietto ereditato dalla sua mamma”. In effetti ogni stanza ne aveva almeno uno alla parete. In salotto ce n’era uno da terra. Tutti bruniti e macchiati dal tempo, con splendide cornici dalle volute dorate. “Molto Rivoluzione Francese” pensò a voce alta. Aveva visitato una sola volta Versailles e al terzo salone aveva provato l’irresistibile istinto di nascondersi dietro qualche porta per non uscire più e vivere nell’opulenza reale per sempre. D’altra parte ai tempi aveva quattordici anni e pochi neuroni attivi. “Il tofu lo sai che mi piace poco, ma l’hummus era davvero fantastico. Con tutti questi ceci mi gonfierò come lo Zeppelin”. “Stupida, lo sai che sei sempre bellissima. Ecco, questo è il bagno di Mussolini”.
Non avendo il coraggio di chiedere oltre, chiuse la porta e iniziò il viaggio. Le pareti erano ricoperte di carta da parati dorata ancora in ottimo stato. Il lavandino, incassato in un piano di vetro brunito sovrastato da uno specchio gigante, rifletteva se stessa e un altro specchio appeso dietro di lei. Una piccola vasca coi piedini dorati stava nell’angolo di destra. Gli asciugamani erano ordinatamente riposti su portasalviette in ottone. “Andrebbe lucidato”. Decise che farsi una foto con tutti quegli specchi sparsi dietro e davanti le avrebbe fatto guadagnare qualche follower in più su instagram. Quindi cercò l’angolazione giusta e con la mano un po’ tremolante scattò. Non le andava di fare la pipì, non le sembrava carino nei confronti di Mussolini, se fosse mai passato di lì davvero. E poi c’era una strana atmosfera, le voci delle ragazze giungevano distorte. Le venne subito in mente una scena del Titanic. Grandi cappelli piumati e voci argentine, l’orchestra che suonava. E un iceberg. Lei e la sua capacità di avere la visione d’insieme delle cose. Di Caprio poi era affogato? Sì. Stecchito dall’acqua gelida poveretto. Aveva letto non si ricordava dove che il film era stato interamnete girato in Messico in una grandissima vasca piena di acqua gelida. Pare che Cameron fosse severissimo e richiedesse sempre più ghiaccio per abbassare la temperatura e rendere tutto più vero. Capirai, in Messico il ghiaccio.
Posò il telefono sul piano di vetro spesso e si guardò allo specchio. Il ritocco all’acido ialuronico le aveva giovato, ora godeva di un aspetto decisamente riposato e fresco. Forse avrebbe dovuto fare qualcosa anche per quelle fastidiosissime zampette di gallina intorno agli occhi, ma in fondo aveva un’età in cui ci stava anche che le avesse quelle maledette zampe. Dopo i trentacinque dormi mezzora di meno e hai gli occhi appestati come dopo tre giorni senza sonno. Maledetta vanità. Fece per riprendere il telefono allungando la mano destra. Eppure lo aveva posato proprio lì, sul bordo destro del piano. Strano.
“Eccoti qui!”. Valeria era spuntata sulla porta, facendola trasalire: “Il primo è pronto. Prendi il cellulare sul bordo della vasca, prima che cada”. “Prendo anche il golf in salotto, ho un po’ freddo”. Valeria, senza ribattere, si avviò camminando sullo splendido tappeto persiano dai toni porpora. Edith entrò nel salottino coi due divani e il camino cosparso di foto dalle svariate dimensioni. Carini i fratelli di Valeria. Arrivò un messaggio: “Scusa”. Sorrise. Come se ci si potesse scusare così per una cosa come quella. Prese il golfino verde acqua che aveva lasciato sulla poltrona in velluto color giallo scolorito. Le piacevano tanto quelle poltroncine, le ricordavano il suo nonno. “Ti prego, un altro messaggio”. “Non ora, devo prima finire di mangiare”.
Valeria era un’ottima cuoca vegetariana. Le pennette di kamut alle zucchine con curry e cumino erano ottime. Lei avrebbe preferito una bella costata al sangue, ma era ospite e qui si mangiava veggie o almeno quasi del tutto veggie. A seguire un cous cous con gamberi, ceci e valeriana condito con olio extra vergine e aceto balsamico. Certi accostamenti la facevano indietreggiare come di fronte al demonio, ma non avrebbe mai voluto deludere le sue amiche quindi mangiò e se lo fece piacere. Il gewürtztraminer gelido era un ottimo compagno per distrarsi.
“Ciao”. Questa volta rispose stizzita “non ho tempo adesso”. Voleva finire di mangiare in pace prima di rispondere a tutta quella gente. “Venite! Vi faccio visitare la casa”. Edith prese con sé il bicchiere di bianco, dato che cominciava ad annoiarsi. I tours guidati non le andavano granché a genio. “Questa è la sala da cucito di mia madre”. “Che meraviglia…” pensò. C’erano spolette di filo colorato ovunque sul grande tavolo quadrato che occupava praticamente l’intera stanza intonacata di bianco. Dissonava con le stanze viste prima, tutte piacevolmente ricoperte di carta da parati dai colori un troppo cupi per i suoi gusti, ma assolutamente in accordo con l’'epoca tardo Ottocento della villa. Non aveva mai capito perché in piena Belle Èpoque ci fossero le stanze sempre un po’ cupe. Ma lei di storia e di arredo capiva poco, quindi poteva non essere una cosa di cui occuparsi.
“Valeria!” Le ragazze erano uscite dalla stanza lasciandola in compagnia della singer in ferro battuto nera a pedale. “Ciao!” Ancora??? Ma cosa c’era? Un’invasione? Inserì la vibrazione e mise il cellulare in tasca. Uscì dalla sala cucito, svoltò a destra nel corridoio che portava al bagno di Mussolini. Le ragazze stavano chiacchierando in una stanza in fondo a destra. “Eccoti! Questa è la stanza di mia madre”. Era una grande stanza da letto dalla volta a tratti scrostata, ma comunque ben conservata. L’armadio a specchio a destra della porta era in pessimo stato. Brunito e macchiato all’inverosimile e anche un po’ inquietante. Il letto matrimoniale era occupato dal materasso arrotolato.
“Ciao”. Stavano lì in un angolo a guardarla con gli occhi tristi e vuoti, la pelle di alabastro e il vestitino blu con il grande fiocco al collo. “Ragazze io esco”. Troppi occhi la guardavano. “Perché?” “Perché i due bambini là, nell’angolo dietro alla dormeuse, non condividono che noi si stia qui a fare chiasso. Io esco.” “Bambini???” Valeria ed Ester si guardarono stupite. Edith si infilò nella porta alla volta del corridoio incappando in un quadretto blu con raffigurante una donna con la bocca spalancata. Le mancava l’aria. “Ciao”.
Basta! basta! non ne poteva più di quei messaggi. Da quando era entrata la stavano tartassando di domande e di richieste di attenzione. Ma lei non poteva… non sapeva come fare... lei ogni tanto li vedeva se erano particolarmente infelici però non riusciva a parlare con loro. Non riusciva a comunicare come avrebbe voluto. Aveva il cuore in gola e lo stomaco che si rivoltava. Fosse stata nel labirinto di Shining avrebbe avuto meno paura. Aveva le mani gelide e le gambe cominciavano a tremarle. Cosa ci facevano lì quei piccini con gli occhi vuoti?
“Ciao”. “Vieni ti faccio vedere un’altra stanza così mi dici se vedi gente infelice anche lì in qualche angolo” . Le ragazze la stavano prendendo in giro e i bambini, dietro di loro, la osservavano, muti. Aveva bevuto troppo forse. “Ciao. Se non ci guardi diamo fuoco alla casa”. Ci mancavano i bimbi piromani al seguito stasera. E poi tutti quei messaggi “Ciaociaociaociaociaociaociaociaociaociaociao” a cui non sapeva sinceramente cosa rispondere. “Edith! Vieni qui! Tu che vedi la gente dimmi cosa vedi qui!”. Valeria la stava deridendo deliberatamente mentre Ester sorrideva. Ester aveva capito che non stava mentendo a proposito dei due bimbi. Anche lei vedeva gente, a volte, e molto più di lei. Aveva gli occhi smarriti di chi sa che sta per succedere una catastrofe. “Non vedo niente di particolare se non persone che prendono il tè tranquillamente chiacchierando. Belline le collane nella teca. Tua madre ha seguito le istruzioni della nonna quindi”. Attimi di gelo seguirono la sua dichiarazione. Non poteva sapere né che quella era la sala del tè né che la nonna prima di morire si fosse raccomandata di conservare i gioielli di famiglia in una teca ben in vista (anziché permettere alla mamma di Valeria di indossarli). Un minuto dopo ci fu un leggero sibilo ed Edith sentì qualcuno sospirare nel suo orecchio “Fuoco…”
Aveva perso di vista i bimbi nel trambusto dei ricordi non previsti. Si girò di scatto ed emise un urlo talmente forte che le ragazze per lo spavento si mossero maldestramente contro la vetrinetta che si frantumò a terra. Davanti a lei stava un uomo magro e alto e senza occhi. Doveva essere una mania quella degli occhi vuoti pensò, ansimando per lo spavento. Ma cosa stava succedendo? Non respirava quasi più e non riusciva a vedere oltre la sagoma allampanata del nuovo arrivato. C’era del… fumo! Il fuoco. Cosa stava bruciando? Cosa? Cominciò a percorrere il corridoio tastando le pareti. Una credenza, una sedia, un’altra sedia, uno specchio, una mano. L’urlo che le uscì dalla bocca fu talmente acuto da bruciarle in gola. La bimba la stava guardando senza espressione. Forse Edith stava per avere un infarto. Di nuovo le riecheggiò nelle orecchie in lontananza quella musica… la conosceva bene… sì: la danza della principessa confetto, da “Lo schiaccianoci”. Lei bambina e il saggio di danza... quanto le sarebbe piaciuto interpretare la danza araba. Purtroppo non era abbastanza snodata. Non lo era mai stata. Non era mai stata tante cose d’altronde... La musica si faceva sempre più forte... sempre più forte... quanto fumo... non si respirava più... cosa volete bimbi? perché non parlate?
“Edith, tesoro è ora di alzarsi o farai tardi al lavoro. La sveglia suona da cinque minuti e tu non hai dato segni di vita”. La sveglia. Sì. Aveva scaricato la suoneria della principessa confetto da un paio di mesi. Probabilmente era talmente stanca che nemmeno quella mattina si era accorta che suonava. Si guardò intorno giusto per sincerarsi che fosse viva. Si annusò le mani e i capelli e si alzò. Non aveva proprio voglia di andare a lavorare quella mattina e si lavò il viso e i denti controvoglia. L’espressione che assunse guardando nello specchio valeva più di mille parole. Un misto tra terrore e sorpresa. Dietro di lei sulle piastrelle della doccia una scritta: “Grazie per averci ascoltato”. Cristo santo. Sarebbe stata una giornata decisamente pesante, pensò.

 

 

 

 

Immagine di copertina: Lucien Freud, Donna con gli occhi chiusi (part.)

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