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Saturday, 12 January 2013 09:55

Lo studente di Praga o dell'Io

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Praga, 1820. Balduin è uno studente innamorato di una facoltosa contessa e da lei ricambiato. La sua umile condizione non gli permette però di frequentarla assiduamente e dichiaratamente come vorrebbe. Dopo aver fatto la conoscenza del mefistofelico signor Scapinelli questi gli propone un patto: 100.000 monete d’oro in cambio di una qualsiasi cosa presente nel suo modesto appartamento. Il giovane Balduin lo invita a casa, firma il contratto e il vecchio Scapinelli si impossessa della sua immagine riflessa nello specchio.

Il tema del doppelganger, da sempre tanto caro alla letteratura e alla cultura popolare tedesche trova qui, nell’opera del regista Stellan Rye, la sua prima trasposizione cinematografica. Il film però sarà ricordato soprattutto per essere uno dei primi lavori dell’attore Paul Wegener, grande divo del cinema muto tedesco, consacrato appena un anno più tardi con l’interpretazione del mostro d’argilla in Der Golem. Il tema del doppio sarà inoltre riproposto qualche anno dopo, precisamente nel 1920, in maniera molto più sottile e visionaria, da un altro grandissimo capolavoro del cinema tedesco, Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, manifesto immortale dell’espressionismo (tra l’altro nel 1926 verrà proposto il remake del film di Rye proprio con Conrad Veidt, protagonista della pellicola di Wiene, nei panni del protagonista Balduin). È innegabile, dunque, l’importanza storica di questo piccolo gioiello del romanticismo teutonico. Certo, visto oggi, il film di Rye non conserva il pathos e la grandezza concettuale che suscitava allora (cosa che invece il capolavoro di Wiene mantiene tutt’oggi), questa però è una mancanza comune a quasi tutti i film di genere. Lo studente di Praga è, infatti, etichettabile a tutti gli effetti come cinema, certo romantico, certo d’autore, ma sicuramente cinema horror, o per meglio dire, fantastico. In effetti la genesi dell’horror non può prescindere dal fantastico. L’horror contemporaneo se n’è distaccato enormemente concentrandosi sull’orrore provocato dal vivere quotidiano (tratteremo ampiamente altrove questo argomento), ma questa scissione è stata operata solo di recente. Basti pensare che fino a pochi decenni fa, per raccontare i mali della società, la paura del fantastico e dell’ignoto ne veniva usata come allegoria insostituibile. Alcuni nomi su tutti: Carpenter, Cronenberg, Romero. È anche vero che un capolavoro come La notte dei morti viventi, spartiacque di un intero movimento cinematografico (un po’ come lo è stato La dolce vita di Fellini per il cinema italiano, e non solo) ha una potenza comunicativa e, allo stesso tempo, contenutistica che molto probabilmente il film che stiamo trattando non riesce ad avvicinare (né all’epoca, né tanto meno oggi) nella sua arcaica messa in scena. Detto questo, l’argomento trattato, e ci riferiamo al concetto di doppio, o meglio di sdoppiamento dell’Io, merita un approfondimento. Innanzitutto scopriamo, continuando la visione del film, che la copia del nostro Balduin fa di tutto per rendergli la vita difficile. Nonostante sia ormai ricco la sua relazione con la contessa va a rotoli, la sua carriera accademica precipita e la posizione sociale cui aspirava va a farsi benedire, insomma il nostro protagonista si ritrova a vivere una vita insostenibile. Ma cosa rappresenta veramente il suo secondo Io? Siamo quasi certi che Ewers, sceneggiatore del film, non abbia voluto mettere in scena una metafora della chimera concettuale sostenuta da Hume. Il grande filosofo scozzese sosteneva che l’Io è un fascio di percezioni, attitudini e convinzioni in perenne movimento, per questo motivo non un’entità sostanziale ma, per l’appunto, una mera chimera concettuale. In effetti, con che logica possiamo affermare che io, in questo momento, sono ontologicamente la stessa persona di 10 o addirittura 20 anni fa quando ero un bambino? Tra l’altro, da un punto di vista prettamente fisico, le stesse cellule che compongono la mia materia di ente quadridimensionale sono completamente diverse da quelle di 20 anni fa (nel giro di pochi anni pare ci sia un rinnovamento cellulare tale da sostituire completamente le precedenti). Insomma, il concetto è quello che i metafisici di oggi chiamano “concetto di persistenza”. Quanto, cioè, delle nostre qualità, sia fisiche che psichiche, possono ritenersi sostanziali al punto da persistere ai mutamenti operati sul nostro essere dal tempo? Per carità, in fondo niente di nuovo, interessanti questioni su tale problematica erano già state evidenziate dai paradossi logici dei greci, famoso quello di Platone nel Fedone, noto come La nave di Teseo. Non è però nelle intenzioni di questo scritto approfondire tale dilemma, del resto abbiamo detto che ci pare non sia questo il senso del paradigma usato dall’autore del film. Possiamo però adesso affermare con più convinzione che tra Balduin ed il suo doppio non c’è “persistenza”. Il doppelganger appare cioè totalmente altro dal suo clone originario. Diverso a tal punto da voler desiderare praticamente l’opposto del suo uguale. In parole povere, se Balduin desidera, come tutti, di essere felice, il suo doppio si prodiga con tutte le sue forze per renderlo infelice. La frase del poeta francese Alfred de Musset fa da leitmotiv all’opera dall’inizio alla fine sottolineandone via via le scene cruciali: “Non sono Dio, né posso essere il demonio, però, con disprezzo, pronuncio proprio il tuo nome! Poiché dovunque sei ci sarò anch’io … fino alla tua ultima ora e, davanti alla tua lapide, mi siederò sulla tua tomba”. Il doppio malefico del nostro protagonista sembra dunque rappresentare più verosimilmente il male eterno. Male in quanto negazione della felicità individuale, eterno in quanto del tutto personale, cioè duraturo quanto l’esistenza della persona stessa che lo subisce. Eternità intesa quindi come l’intera durata della vita. In questo senso la fine del mondo altro non è che la fine della propria esistenza. Mondo quindi come rappresentazione fenomenologica del soggetto percepente, che cessa di rappresentarsi nel momento stesso in cui tale soggetto si esaurisce con la morte. Ritornando ai fatti filmici, il nostro studente, resosi ormai conto che l’unica possibilità che gli rimane è quella di ribellarsi alla sua nuova condizione, decide di affrontare una volta per tutte il suo doppio pistola alla mano. Come ne Il ritratto di Dorian Gray, però, ad uscirne sconfitto è proprio lui. Sparando, infatti, al petto dell’altro Io, finisce per uccidere se stesso. L’illusione di sconfiggere il suo personale male lo ha portato all’autodistruzione. Nell’ultima inquadratura del film vediamo Balduin, o meglio il suo doppelganger, seduto su una tomba, alle sue spalle una lapide con su scritto: “Hier ruht Balduin (Qui giace Balduin)”

 

 

Retrovisioni

Der student von Prague (Lo studente di Praga)

regia Stellan Rye

con Paul Wegener, Lothar Korner, Grete Berger, Lyda Salmonova, John Gottowt

produzione Deutsche Bioscop

sceneggiatura Hanns Heinz Ewers

paese Germania

lingua Muto

colore B/N

anno 1913

durata 57'

 

 

 

 

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