“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Caterina Piccione

Sulla punta di un naso turchino

Nasce dal dolore, Pinocchio, come tutti gli altri bambini. “Vuoi proprio venire al mondo?” chiede la fata “cercheranno disperatamente di ucciderti, nel fuoco, nell’acqua, impiccandoti”. È una scommessa antica: volerci al mondo nonostante la consapevolezza che, ad ogni passo, la morte cercherà di mettere i bastoni tra le ruote anche alla vita più ruggente. Sulla linea sottile che separa la vita e la morte, Pinocchio nasce sotto il segno del dolore e nel dolore tenterà di articolare una possibilità d’esistenza.

Occhi aperti al buio

Ho sempre pensato che la prima volta avrei voluto fare l’amore al buio. Invece è successo di giorno e, sul momento, chiudere le veneziane avrebbe rovinato l’atmosfera. È andata bene anche senza buio, forse meglio, era bello vederci. Fatto sta che pensare di fare l’amore al buio, prima di sapere esattamente di cosa si trattasse, mi dava uno strano senso di libertà. Non ci si vergogna di niente se nessuno ci può vedere. Il buio fa sentire liberi.

Ridiamo ancora

Ridiamo.

Non "Ho.me" stessa

Dolce ma non docile, muove i suoi passi lo straniero sul palco di Ho.me. Sul palco di una casa dove "ho-me", possiedo me stessa, tutto è sotto controllo. La compagnia Vernicefresca, con l’attenta regia di Massimiliano Foà, mette in scena una casa distopica, fatta di grigi glaciali, dove chi viene da fuori non è il benvenuto. Una casa scandita da un tempo decisivo, sempre sul punto di cominciare.
Ho assistito ai primi passi di Ho.me a luglio durante calde giornate di prove milanesi. È una grande emozione stare seduta fra il pubblico, nel buio della sala, e vedere i colori freddi delle scene, le luci affilate, i costumi, le musiche, tutto ciò che compone il prodotto finito, costruito intorno ai corpi delle quattro ragazze e al lavoro di regia che già vedevo all’opera un paio di mesi fa.

La mano vicino al fuoco

Assistere alle prove di uno spettacolo è come vedere le suore che si mettono il velo al mattino. Vi è una sorta di sacra intimità violata da parte dello spettatore ingordo, che non si accontenta del prodotto finito, ma vuole intrufolarsi nelle pieghe del processo creativo. Gli artisti dicono che fa piacere, che è importante avere dei testimoni – ma somiglia pur sempre a un lusso, a un dispetto, a un’invasione di campo. Tanto più se si tratta di uno spettacolo studiato in terra straniera, che cerca di articolare precisamente il tema dell’estraneità.

Quello che non è

Alcune case non hanno nulla di rassicurante. Vi sono focolari domestici che non promettono protezione e riposo dopo lunghe giornate nel mondo. In alcune case nemmeno si può entrare o uscire, soltanto ci si aggira. Sempre si è dentro e fuori di casa, con un’inquietudine stanca ma allarmata.

Show Reality

Come rappresentare la realtà?
Questa domanda pare una chiave di volta dell’estetica contemporanea. Il tentativo ossessivo di aderire alla realtà percorre l’intero panorama della cultura, dall’esibizionismo pornografico delle passioni tristi che sono il cuore dei reality-show all’iperrealismo delle installazioni autoreferenziali di cui si alimenta la cultura alta (ma chi l’ha messa in alto? Tiriamola giù). E nemmeno si tratta dell’estetica contemporanea in senso stretto. L’arte in sé stessa, fin da principio, non può che chiamare in questione una particolare declinazione del rapporto fra prodotto estetico e realtà.

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il Pickwick

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