“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Paolo Lago

La cicatrice dell’angoscia nel corpo della parola

Si accendono le luci e illuminano una scena livida, segnata da tonalità cupe e invasa da una terra grigia, ctonia, quasi fosse il residuo di un’oscura apocalisse. La scolta emerge dal buio e comincia a narrare il dolore e l’ansia delle sue veglie, segnate dall’attesa della flotta di Agamennone. Le sue parole echeggiano come un cupo e scandito rimbombo nelle orecchie degli spettatori, assuefatti al misterioso silenzio. È l’inizio dell’Agamennone di Eschilo, la prima tragedia dell’Orestea nella messa in scena del Teatro Nazionale di Napoli (dove ha debuttato nel novembre 2015) per la regia di Luca De Fusco, rappresentata al Teatro Verdi di Padova dal 26 al 30 aprile scorsi.

Parole cantate fra giochi di ombre

L’inizio del libro IV dell’Eneide ci presenta Didone, la regina di Cartagine, mentre, colpita dall’amore per Enea, in preda all’agitazione “nutre una ferita nelle vene e un cieco fuoco la divora”. Nella Didone abbandonata (1724) di Metastasio, invece, Didone fa un ingresso solenne in un contesto scenico ispirato a un rigore quasi geometrico, mentre già in scena si trovano Enea, Osmida (confidente di Didone) e Selene (Anna, sorella della regina, così rinominata dal poeta).

Le avventure della Pipucci (una storia marinara)

“Le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all'avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell'assolata bellezza dei corsari”.
(Michel Foucault, Le eterotopie)

 

La Pipucci era ormeggiata nel porto di Livorno. Era una serata stupenda, con un tramonto che faceva macerare ogni cosa nel suo languido colore rossastro che emanava da una enorme ferita aperta nell'orizzonte affamato. Mi ricordava, o miei ingenui lettori, miei simili e fratelli, alcuni dipinti di Natalini, con il porto immerso in tramonti invernali e glaciali, da mari del Nord, oppure con la via Grande immersa in una notte incipiente, con una pallina rossa piccola piccola che quasi illuminava di luce propria il dipinto, una luce che sembrava emanare un'arancia luminescente che irradiava un paesaggio urbano ancora intatto, ancora immune da scempi di biechi costruttori.

A Valle d'Itria 2016

Dal 14 luglio al 5 agosto 2016 si è svolto nella bellissima cornice di Martina Franca, in provincia di Taranto, il quarantaduesimo Festival della Valle d’Itria.

Il teatro crudele di Roberto Arlt

Non cantiamo vittoria troppo presto,
il grembo da cui il mostro nacque è ancor fecondo
Bertolt Brecht, La resistibile ascesa di Arturo Ui

 

 

Recentemente le edizioni Arcoiris hanno pubblicato due pièce teatrali di Roberto Arlt, presentate per la prima volta al pubblico italiano, Saverio il crudele e L’isola deserta, nella bella traduzione di Raul Schenardi e Violetta Colonnelli: il primo è definito dallo stesso autore una “commedia burlesca in tre atti”, il secondo un  “atto burlesco”.

Oltre la segreta reticenza del mondo

ricostituire, attraverso il concatenamento delle parole e la loro
disposizione nello spazio, l’ordine stesso del mondo.

(Michel Foucault, Le parole e le cose)

 

Era un piccolo porto, era una porta
aperta ai sogni.

(Umberto Saba, In fondo all’Adriatico selvaggio)

 

 

Per accostarci ad una lettura di Eclissi, di Ezio Sinigaglia, possiamo partire da quanto lo stesso autore scrive in una nota a una sua recente traduzione di un racconto di Julien Green, Leviatano o L’inutile traversata, del 1928: "ʽReticenzaʼ è la parola chiave di questo racconto: reticenza del protagonista, dei cui sentimenti ci viene detto che “ce qui en paraissait, paraissait malgré ses efforts” (“quel che ne traspariva traspariva a dispetto dei suoi sforzi”), ma reticenza anche e soprattutto del racconto stesso, che non si piega neppure a svelare al lettore il segreto che il passeggero si decide infine a confessare al capitano (per poi subito, è pur vero, ritrattarlo)".

Una scrittura geopoetica testimone di guerra

 "Ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione".
                                             (Cesare Pavese, La casa in collina)

  
"Bella la vita dentro un catino,
bersaglio mobile di ogni cecchino,
bella la vita a Sarajevo città,
questa è la favola della viltà".
(CSI, Cupe vampe)


Come nota Bertrand Westphal, il principale esponente della geocritica – una branca della critica letteraria che presta particolare attenzione ai luoghi – negli ultimi anni la nozione di spazio (soprattutto paesaggio e spazio urbano) ha assunto un'importanza sempre maggiore in letteratura. Infatti, nella contemporaneità – scrive ancora Westphal – assistiamo ad una “spazializzazione del tempo”: la stessa scrittura è creatrice di spazio, inanella nel suo incedere luoghi anche estremamente diversi tra loro. Si può così parlare di “geopoetica”, “ossia un’esperienza discorsiva che si fa creatrice di mondi”.

Manoel de Oliveira e il “doppio oscuro” dell’Occidente

Manoel de Oliveira ci aveva visto giusto: Un film parlato (Um filme falado, 2003) bene racconta e rappresenta il drammatico “doppio oscuro” che si cela sotto l’apparente ordine e stabilità della società occidentale contemporanea. Tutto il film si srotola sotto forma di un viaggio: quello compiuto nel Mediterraneo e oltre, fino a Oriente, da una nave da crociera sulla quale sono imbarcate Rosa Maria, una giovane professoressa di storia dell’Università di Lisbona e la sua bambina. Diverse tappe scandiscono l’incedere della navigazione: da Marsiglia a Napoli, da Atene a Istanbul e Il Cairo fino a Aden, nello Yemen. La parola è dominatrice indiscussa delle immagini che vediamo avvicendarsi: una parola segnata dal logos e dalla razionalità, una parola – quella della madre – potentemente didattica e socratica, una parola che offre spiegazioni razionali e che racconta la Storia per mezzo di termini semplici e immediati.

Un “viaggio terribile” nell’eterotopia dell’incubo

Un viaggio terribile (Un viaje terrible, 1941) di Roberto Arlt, recentemente pubblicato da Arcoiris con la (eccellente) traduzione e la curatela di Raul Schenardi, appare come un vero e proprio piccolo gioiello narrativo. Il racconto, ambientato interamente nello spazio di una nave, la Blue Star, si può dividere in due parti: la prima, in cui il “viaggio terribile” che dà il titolo al libro si materializza sotto le vesti di alcuni piccoli incidenti e delle profezie di sventura offerte da Luciano, il cugino del narratore; la seconda, invece, in cui l’orrore del viaggio si manifesta in un gigantesco vortice che, come in Una discesa nel Maelström (A Descent into the Maelström) di Edgar Allan Poe, risucchia le imbarcazioni negli abissi marini.

Imbarchiamoci nella lettura di un Satyricon ‘rivitalizzato’

…e tutto questo raccontato in uno stile d’un colorito preciso, d’un brio indiavolato, in una lingua che attinge a tutti i dialetti, prende in prestito modi di dire a tutti gli idiomi portati a spasso per Roma…

J. K. Huysmans, À rebours

 

Michel Foucault, al principio della recensione alla traduzione dell’Eneide realizzata nel 1964 da Pierre Klossowski, scrive: “Il luogo naturale delle traduzioni è l’altro foglio del libro aperto: la pagina a fianco che è coperta da segni paralleli. L’uomo che traduce, traghettatore notturno, ha fatto silenziosamente scivolare il senso da sinistra a destra, passando sopra la piegatura del libro. Senza armi né bagagli” (M. Foucault, Le parole che sanguinano, ora in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 1. 1961-1970, Follia, scrittura discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 83). Chi traduce è un traghettatore notturno, un nocchiero che ci conduce da una sponda all’altra: dal testo di partenza a quello di arrivo.

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