“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Michele Di Donato

"Quanto può essere lunga un'ombra?"

Esiste un passato che allunga la propria ombra sul presente con la cupezza sinistra degli scenari macabri; esiste un passato, nella storia di un Paese, le cui torbide vicende, i cui misteri insoluti, le cui occulte sfere, s’allungano ancora e ancora s‘allungheranno sulla storia patria disegnando un’ombra malevola e subdola, nella cui oscurità il sotterfugio, la collusione, il malaffare hanno potuto liberamente proliferare.

Natività maradoniana

29 ottobre: vigilia di Natale. No, non abbiamo per le mani un calendario impazzito… È che stiamo celebrando la nostra religione, l’unica a cui riconosciamo legittima Rivelazione e che principiò il 30 di ottobre del 1960 in un barrio di Buenos Aires chiamato Villa Fiorito. Lì, quel giorno, nasceva l’incarnazione magica e divina di Colui che sarebbe diventato di lì a qualche anno, la cosa più vicina alla trascendenza che ci fosse dato di vedere coi nostri occhi: Diego Armando Maradona.

Non 'cosa' ma 'come'

Eccellenza manifatturiera dell'epoca borbonica, San Leucio lega il suo nome e una fama bicentenaria all’impresa delle seterie; per tale motivo, non possiamo fare a meno di notare che, nel luogo degli opifici del tessile, in uno spazio teatrale che pure si chiama Officina, va in scena uno spettacolo intitolato #Tessuto (dove l’elemento tessile viene significativamente preceduto da un hashtag – il grafema in uso su Twitter – su cui torneremo a breve).

In gabbia con Čechov

Giocando con le parole: dal volatile alla prigione che lo contiene. Il gabbiano di Čechov, dalla pagina alla scena rivive lo stato di prigionia annoiata e strisciante in cui erano confinati i suoi personaggi dichiarandone programmaticamente la contenzione mediante l’elisione dell’ultima sillaba: Gabbia(No). La noia, la costipazione, l’assenza di vita vera e veramente libera dai lacciuoli di una forza oscura che impedisce a ciascuno di compiere un destino differente e anelato: questo è Il gabbiano di Čechov, questo ripropone Gabbia(No) nella rivisitazione (“dis-adattamento”, com’egli esplicitamente l'etichetta) di Woody Neri.

L'evanescenza delle ombre

“Estremo”. Ė la prima parola che ci affiora sulla punta delle labbra quando, in un soffio recuperiamo il respiro dopo i quaranta minuti vissuti in una condizione simile all’apnea durante la visione di Ultimo Round. “Estremo” è l’attributo che di primo acchito sovviene nell’attesa che la decodifica di ciò che s’è visto sedimenti in valutazione circostanziata. “Estremo” perché forte, “estremo” perché Ultimo Round è messinscena che sembra voler sfidare un limite… quale, all’atto di muovere fuori dalla sala non siamo ancora in grado di dire… Bisogna uscire, insufflare una boccata d’aria a pieni polmoni, magari anche scambiare qualche spicciola divagazione con chi ha con noi condiviso la visione. Ma poi, prendendo esempio da quanto visto in scena, nel chiuso di una stanza e dei propri pensieri, bisogna lasciare modo alle impressioni ricevute di decantare.

Che sarà mai quest'amor...

A Corte si parla d’amore. No, non si tratta d’un ballo di gala con dame ammiccanti e acchittate e nobiluomini ritti e imposimati. Né di amori cortesi di cavalieri serventi verso angelicate madonne. La Corte, in questo caso, vede come sovrana la Formica, minuscolo emblema di laboriosità; e, nel suo piccolo regno, circoscritto in una ribalta destinata ad essere brevemente occupata, prendono forma teatrale piccole storie più o meno d’amore. Diciamo più o meno d’amore perché l’amore, questo vago concetto a cui è dichiaratamente ispirata la presente edizione de La Corte della Formica, viene declinato sulla scena (o almeno ci si tenta) nelle sue variazioni non necessariamente convenzionali.

La scena come un polittico

Turpitudini di un mondo arretrato. Retaggi ancestrali di una terra descritta come forse (probabilmente) più non è da tempo. Un contesto sociale, una storia, tre vite esemplate che prendono corpo sulla scena. Così un palco spoglio e semivuoto si trasforma in uno spicchio di Sicilia dipinto come una pala d’altare: un baule sullo sfondo e tre figure in ribalta, tre figure come a formare un polittico, come fossero tre quadri da vedere prima uno alla volta, poi tutti insieme, quadri parlanti, a tratti all’unisono fra più voci.

Teatro da vedere e storie da immaginare

Raggiungere un teatro con quel più che congruo anticipo che si conviene agli ansiosi cronici comporta sovente l‘inconveniente di dover riempire il vuoto di un’attesa inventandosi punti immaginari in cui far convergere la distrazione del proprio sguardo, oppure appuntando i propri pensieri sull’inseguimento di fantasie più o meno peregrine.
Talvolta però quel congruo anticipo di cui sopra può rivelarsi favorevolmente complice dell’inaspettato, offrendo immagini pregnanti a quello sguardo altrimenti ramingo.

“Non vi è pena più grande che non avere più patria”

Una sera d’estate. Neanche nel locus amoenus del parco della Villa Imperiale di Pausilypon la calura di questo torrido principio d’agosto conosce tregua o lenizione; la brezza dal mare si lascia desiderare ma non esala refolo alcuno di clemenza; è molto calda la serata che ci si accinge a trascorrere seguendo le orme del mito. Le Donne di Hera vuole infatti essere un viaggio a ritroso, alla ricerca ed alla riscoperta delle radici profonde di una terra feconda che ispirò la propria civiltà all’Ellade, filiandosi per gemmazione. La Magna Grecia, la sua civiltà, i suoi miti, rivivono in scena come patrimonio ancestrale.

Vieni, c'è un amico nell'Orto

In programma c’era uno spettacolo chiamato Panchine; in sua vece, sul palco del cortile interno del Castello dell’Orto Botanico, le panchine previste dal titolo mancato cedono il posto a due sedie per lettura e chitarra: in scena Paolo Cresta, accompagnato dalla chitarra di Giacinto Piracci, si legge L’amico ritrovato di Uhlman. Diciamo “si legge”, ma mentre lo scriviamo ci accorgiamo di quanto riduttivo e poco pregnante sia l’uso del solo verbo ‘leggere’ per definire quel che ha riempito un’afosa serata d’estate, insieme ai tafani, ai rombi intempestivi di aerei che si levavano in volo, ai botti che esplodevano estemporanei in onore di chissà quante Sant’Anna.

il Pickwick

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