“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Recitare. Che altro si può fare?

Mettere in scena Quartett di Müller presuppone la piena conoscenza ed il rispetto profondo per la particolare forma-teatro cui pensa l’autore. Müller, infatti, nel realizzare fabule non lineari, complicate d’intreccio, saltellanti nel tempo e nello spazio, schizofreniche nella forma, articolate e complesse nell’evocazione e nella gestione dei ruoli, desidera che la trama – la vicenda, la storia, l’insieme delle battute – sia altro dalla scena: che l’una venga portata su palco e detta, senza che sia forzatamente interpretata dal regista o dagli attori, mentre l’altra – la scena: con le sue luci, le sue quinte, il suo spazio teatrale – viva di vita propria, parallela, autonoma, contemporanea.

Ma quale pirandellismo!

(pirandello)
“Non è un mistero per nessuno che pressoché tutta la scena di prosa, non diciamo italiana ma europea e americana, da trent’anni vive più o meno all’insegna di Pirandello. Che meraviglia c’è se anche Eduardo, approdando dalla tecnica all’arte, si è ritrovato nella stessa schiera?” (Silvio D’Amico).
Quanto Pirandello in Natale in casa Cupiello, in Questi fantasmi, ne La grande magia. E quanto Pirandello ne Le voci di dentro.

Provando a fraintendere

Talvolta la critica deve provare a fraintendere,
ricercando le ragioni possibili, celate, nascoste,
addirittura involontarie.
                                      (Giovanni Raboni)
                      

 

Dalla cartella stampa: "Raccontare uno smarrimento generazionale, una perdita di orizzonti, la ricerca di una terra promessa, attraverso una leggerezza e uno humour che nascondono altro: gli alieni potrebbero essere i macrosistemi economici che ci opprimono o gli impoverimenti culturali che stanno devastando il presente e il futuro della nostra generazione. O potremmo essere noi stessi".
Talvolta si può provare a fraintendere uno spettacolo: spinti da ciò che si è appena visto, si può provare a interpretarlo in maniera diversa, illudendosi, forse errando ma cercando comunque il valore o il senso (ulteriore) di certi segni, di alcuni particolari.
Proviamo, quindi, a fraintendere lo spettacolo dimenticandone la presentazione appena riportata. Partendo da tre citazioni.

Dickens, il racconto e il teatro

A quarantacinque anni Dickens s’intristì all’improvviso. Le giornate gli parvero torve, con nubi leggermente più scure del solito, mentre le strade gli sembrarono infrequentabili. Le ore non trascorrevano più allegramente, nessuna letizia apparteneva al suo sguardo e le pagine bianche che aveva sullo scrittoio cominciarono a restare bianche. Non un racconto, non un romanzo.

Teatro, metafora, attori

Il teatro è l’arte della metafora. L’attore è un uomo che sta in palco, ma come se fosse un altro uomo, all’interno di uno spazio che richiama un altro spazio, e compie gesti che segnano un tempo che non è il tempo vero ma uno fasullo, più breve o più lento di quello durante il quale – normalmente – camminiamo, mangiamo o riposiamo.

Che naso il naso di Gogol!

La pelle giallognola, simile a una sfoglia di pasta all’uovo non infarinata; le mani talmente magre da vederne le falangi a occhio nudo; i polsi pelosi; le gambe corte e storte; i denti guasti; le orecchie più grandi del normale; le labbra molli e carnose; la schiena curvata leggermente; il ventre rigonfio; i piedi larghi quanto le scarpe di un clown; le ginocchia dotate di una freddezza congenita: come vi passassero dentro grandi spifferi da caverna o da grotta. E il collo, vagamente flaccido; la cassa toracica fragile; le spalle addolorate dalla posizione assunta per scrivere; i capelli impomatati in due spioventi laterali con una fila ora fatta al centro, ora fatta a sinistra. Lo sguardo mortifero, simile a quello di chi sta per appisolarsi o di chi non si è mai svegliato del tutto. Lunghi cerchioni neri ne aggravano la profondità. E ancora.

Ma che vuoi, Anna Maria?

Ma che sei tornata a fare a Napoli? Ma chi ti ha chiamato? Sei venuta a spiare? Sì, a spiare, sei venuta a spiare, vero? Non ti basta quello che hai scritto di questa città? Non ti basta quello che hai scritto sugli intellettuali di questa città? Perché non te ne vai? Perché non te ne vai a Roma, a Firenze, a Milano, perché non te ne vai a morire in Liguria? Ma tu ci hai mai conosciuti? Ma tu ci hai mai frequentato? O ci hai soltanto spiati per poterci mettere nelle tue pagine? Non è che sei tu, proprio tu, quella che sbaglia? Sei sicura di non essere in torto? Sei sicura di non aver commesso un errore scrivendo il tuo libro? Ma perché non te ne torni da dove sei venuta? Perché non ci lasci in pace? Perché ci tormenti? Anna Maria, perché ci tormenti?

Una rilettura superficiale

Quasi come un dispetto, come un cruccio che si è preso e che non si vuole confessare, come uno sbaglio che non si desidera ammettere e che viene permesso o di cui ci si prende ancora l’arbitrio. Ferito a morte di Claudio Di Palma – qualunque sia la sua forma (lettura-preludio in un bellissimo scorcio posillipino, vera e propria messinscena da teatro, di nuovo lettura-preludio ma fatta sul palco) – torna riproponendo gli stessi limiti, le stesse cadenze, la stessa superficiale versione dell’opera.

Amleto, il tuo vero nome è Ofelia

Le esequie di Ofelia avvengono quando manca un’ora alla fine dell’opera. Quinto atto, scena prima. Un rito, “monco”, si trascina in ribalta. Dobbiamo immaginare la grande pedana a semicerchio, le lampade fioche, il silenzio battuto dai passi lenti e tre attori (Re, Regina, Laerte) che portano in dote un cadavere. Di un quarto (Amleto) intuiremo la presenza: la punta dei capelli, forse gli occhi, il capo intero magari: egli s’affaccia, spiando la recita e aspettando il momento in cui toccherà prendervi parte. Un quinto interprete (il prete), fisso dritto a sinistra, attende di dire la sua battuta: “Le esequie sono state celebrate nei limiti consentiti”. Dobbiamo immaginare il pubblico, a ridosso del palco del Globe, afferrato alla gola dalla commozione, fisso nello sguardo, immobili i muscoli, ferma ogni espressione mentre segue gli eventi: gli uomini trattengono il fiato e disperano di non essere donne per potersi dare liberamente alle lacrime; le donne s’indignano come s’indignano di solito gli uomini e, zitte, tormentano le labbra e stringono i pugni, desiderando la vendetta.

Piccoli Beckett, ma con speranza

Brevi gags di coppia; piccoli giochetti clowneschi; interrelazioni minime fatte di frasi che si ripetono, di gesti che si ripetono, di silenzi che si ripetono alternandosi a micromonologhi, inserti leggermente più prolungati, nei quali l’uno o l’altro personaggio svolge il ruolo di primo, con la spalla al suo fianco. Ma anche: una condizione di stasi vischiosa, un immobilismo di partenza da cui sembra impossibile evadere, una casa-non-casa (un tappeto a scacchi, un fiore di stoffa, una lampada da pavimento, due sedie, un tappetino) che è simile tanto ai luoghi-non-luoghi del teatro dell’assurdo: lì dove sorgono pareti immaginarie, dove gli spazi sono segregati per quanto non se ne veda la fine, dove non c’è apertura possibile, possibile fuga all’esterno. E in più: una metateatralità continua, costante, ben definita per accenni, ammicchi, sguardi diretti col pubblico (“È un poeta”), per scoperta illuminata di questo stesso pubblico (“C’è un sacco di gente”) o per scambi dialogici che alludono alla presenza su scena ed alle parti da recitare in commedia (“Ma, quanto meno, vai a tempo”; “E poi devi migliorare”; “Sì, ma calmati! Parole misurate, devi fare delle pause, altrimenti non mi arrivano le parole”).

il Pickwick

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