“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

La tournée di una compagnia

È difficile esprimere concetti significativi, che dicano davvero qualcosa, che riempiano la pagina comunicando una o più immagini che varranno la lettura dell’articolo.
Questa è la sensazione di chi scrive, ora. Poiché chi scrive ora è confuso, come annebbiato, preso da mille e una sensazioni diverse che nascono dall’unione tra la pratica dell’osservazione teatrale, dalla scrittura sugli spettacoli visti, dalla visione di questo film sulla Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni, per la regia di Toni Servillo. Cinema, teatro, teatro in forma di cinema, cinema sul teatro, cinema con la profondità del teatro, teatro che corre alla velocità del cinema. È difficile.

Piccola storia delle carezze

“Cosa le ha detto sua sorella?”.
“Mi ha spiegato come vanno le cose”.
“Lei ci ha creduto?”.
“Mi ha detto che vanno così”.
“E non possono andare diversamente?”.
“No”.

 

“È così che vanno le cose? È così che la pensa lei? Abbiamo scherzato. Poi sono arrivate le cose importanti ed è finito il tempo delle carezze”.

In solitudine

www.Testamento.eacapo di Luca Trezza vuol essere il racconto e l’analisi di una condizione di soglia, di incertezza, di confuso eccesso emotivo: narrando il delirio di chi attende l’incontro, la conoscenza, la visione fisica e reale di una persona conosciuta via etere, cerca anche di rendere le derive grottesche del fenomeno, il suo patimento giocoso, la sua maniacale espressione generica. Potremmo parlare di una commistione di prima e terza persona, di soggettività che narra – in maniera disturbata e disturbante – la propria vicenda nel mentre, questa stessa vicenda, viene interrotta da lampi, scaglie, frammenti d’altre vicende possibili perché fungano da documentazione, sottolineatura e conferma. La sensazione, al primo sguardo, è simile a quella dello zapping televisivo contraddistinto però non da immagini nitide, pulite e perfette, ma da sequenze momentanee e discordi, distorte, come piegate e stritolate in se stesse.

Un pieno di dubbi

Racconto di sé per interposto se stesso. Autobiografia in prima persona ma operata per rimando. Ricordo d’insieme costituito per frammenti, che vengono offerti tra fondo teatro e ribalta. Padre, infanzia, studi, amicizie, esperienze giovanili, primi lavori, prime mortificazioni, prime umiliazioni. La perdita della propria dignità, il desiderio di evasione, di cambiamento, di fuga. L’azzardo dell’Arte, la creazione di una figura, la funzione di una maschera. La malattia. L’amore e la stanchezza per il teatro. La caduta, il recupero, di nuovo l’amore per il teatro. Una vita da clown: prima a Napoli, poi a Parigi. Col senso allegro della differenza, dello scarto, della lontananza. Col senso amaro della differenza, dello scarto, della lontananza.

La bisbetica di Konchalovskij

“Io ti sistemo, parola mia”. Questa è la prima battuta del primo personaggio de La bisbetica domata. Non sarà mai pronunciata. Sly, il buon Sly – figlio del vecchio Sly di Burton Heath, per nascita venditore ambulante, per formazione fabbricante di attrezzi da cardatore, poi guardiano di orso ballerino e, per professione attuale, calderaio – non avanza sulla scena; non borbotta; non alza la voce; non cammina con passi storti ed incerti; non fa sentire agli spettatori quanto, il suo fiato, puzzi davvero di alcol; non insulta Mariana Hacket, la grassa birraia di Wincot; non dice la sua prima battuta, che è la prima battuta dell’opera: “Io ti sistemo, parola mia”.

Il passato, al presente

Possiamo chiudere con il passato, ma il passato non chiude con noi.
                                                               (William Shakespeare)

 

Le casse da trasporto-bibita con su scritto “Staro”, “Effeti”, “Lattebusche”, “Delta Lat”, “Sorgente Alba”. Due piani di legno reclinato che saranno – di volta in volta – tavolo da gioco, binari di una stazione, insegna di un negozio, pedana su cui sedersi, tombe ed esplicita indicazione al pubblico delle parole “Fame” e “Fine”. Sacchetti di polenta istantanea. Pile di cioccolatini Boero. Carte dei cioccolatini Boero, lasciate cadere per terra. E questo dialetto veneto che graffia l’italiano di base, i riferimenti crona-localistici, le allusioni al Nord-Est ed all’effimero imbroglio dell’illusione economica compiute da un fratello e da una sorella, da un "fallito professionista" e da un’aspirante anoressica, da un suicida che non ha il coraggio davvero di suicidarsi e da una suicida che non ha il coraggio davvero di suicidarsi. Questo ed altro in Mio figlio era come un padre per me.

Vita di A.F., scrittore fallito

Bizzoso, passa il tempo a mormorare sotto voce improperi e offese. Borbotta, mentre osserva, stando leggermente lontano. Guarda fissandosi su un dettaglio, un particolare, poi si concentra sul volto della persona e la scava con gli occhi, come per trovarne i piccoli difetti invisibili. Pare si contorca, pare soffra di un male intestino, pare abbia dentro un grumo marcio, qualcosa di malvagio o maligno, qualcosa che gli prema tra le costole. Torbido, come ossessionato da chi o da che cosa, torturante che si tortura da solo quando non tortura gli altri, colmo d’umor nero, di bile inespressa, di cattiveria pensata e non detta, ostile al mondo ed ostile agli altri, sente su di sé l’ostilità: “Anche fuori, nel caffè o nella trattoria, alla passeggiata, avverto ostilità e l’odio. In trattoria mi fanno pagare salato, e mi servono con piglio brusco, brontolando. L’altra sera scheggiò una voce di beffa e di minaccia assieme, udii il rumore di un sasso che andò a picchiare sul lampione a me vicino. Ho pensato di avvertire la polizia; ma temo che non mi diano ascolto”.

Di allora, adesso

Per comprendere la regia con cui Luca De Fusco firma L’amorosa inchiesta di La Capria occorre indirizzare lo sguardo in basso e – solo dopo aver badato ai colori della base di scena – farlo risalire al corpo dell’unica attrice in assito.

Napoliburgo

Il merito maggiore di PetitoBlok è simboleggiato da quest’assenza di spazio nel titolo: due nomi che conservano le loro maiuscole vengono uniti, i due nomi sembrano diventare uno solo pur rimanendo distinti, non c’è confusione ma relazione, messa in evidenza di un legame, accostamento senza mutazione, mantenimento delle reciproche caratteristiche pure stando assieme. Così ciò che nasce come farsa da scherzi, da botte e da mangiate, rimane una farsa mentre l’esasperata finzione e la doppiezza del baraccone tintinnante, grottesco, zampillante di mirtillo − che fu opera di Blok − resta un baraccone.

Se il mare non è mare

Non è un caso che – in Mari – il mare non sia mare davvero: che non vi sia una sola lamina azzurra, nessun tocco di colore chiaro, neanche una finta pittura celeste e che, lo sciabordio da risacca che sentiamo durante la messinscena, funga più da richiamo ritmato e da lento cronometro che da vera connotazione ambientale.
Non è un caso che – in Mari – il mare non sia mare davvero ma un lungo panno nero e che questo panno si distenda, dalla parete di fondo, fin dove siedono gli spettatori: generando questa assenza visibile, infatti, s’annulla il valore del calendario, l’ossessione dell’orologio, l’importanza del dove e del quando di ciò che succede, di ciò che accade, di ciò che avviene semplicemente perché deve avvenire.

il Pickwick

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