“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Roberto Cirillo

Il buco oltre la luce

Il buco di Frammartino è stato presentato in anteprima a Napoli con una doppia proiezione, il 29 settembre 2021 al Cinema Vittoria. Presenti il regista, oltre alla docente Anna Masecchia (punto di riferimento per la cinefilia napoletana, accademica e non) e Antonella Di Nocera (deus ex machina di Venezia a Napoli, la lodevole iniziativa il cui rinnovo, come sempre atteso, è stato confermato di qui a breve).

Trema ancora la stella a cinque punte

Trema ancora, Luca. Persico. Zulù. Mr. Hyde. T.D.M. Trema ancora, e a lungo, dopo esser sceso dal palco. Trema di luce propria. Trema, ce lo confessa anche lui, non come quando, nel secondo decennio, era preda di invisibili pruriti. Trema come quando scendeva dai palchi dei grandi concertoni del primo maggio. Vibra per scaricare ‘la botta’, quella sana, di adrenalina che è salita e che ora deve scendere giù.

L’Antigone, con Žižek, va a morire

“Was die Erfahrung aber und die Geschichte lehren,
ist dieses, daß Völker und Regierungen niemals etwas
aus der Geschichte gelernt und nach Lehren, die aus
derselben zu ziehen gewesem wären, gehandelt haben”
(Georg Wilhelm Friedrich Hegel)



Antigone, How Dare We! è un film di Jani Sever del 2020. A presentarlo, al Trieste Film Festival del 2021 (questo II anno pandemico online), è lo stesso produttore, scrittore e regista. È egli stesso, infatti, a introdurci (con una entrée quasi personalizzata) al suo Antigona – kako si upamo!.

Sedici autrici per sedici sorelle

Sedici racconti per sedici donne. Sedici voci dalla Colombia. Sedici voci femminili raccolte da sedici traduttrici italiane che le hanno trovate, tradotte e portate, per la prima volta, in Italia. Storie che sanno di yucca e tamales impastoiati nella disparità di genere, di un Paese afflitto da forti contrasti e sperequazioni, civili, sociali e politiche. Uno di quei Paesi in cui le vene aperte galeane scorrono più copiosamente (come purtroppo sappiamo bene, gli occhi ancora pieni come sono del tragico esempio offertoci dalla fine di Mario Paciolla).

Siamo tutti innamorati di Pippa Bacca, sposa dentro

Più volte i miei sentieri hanno trovato la via per incrociarla. In realtà, dopo che mi sono imbattuto nella sua storia, son continuamente andato cercandola. La prima volta che sentii parlare di lei fu grazie alla canzone che i Radiodervish le hanno dedicato nel 2013, Velo di sposa. Da quel momento non mi ha più abbandonato, un po’ come un piccolo vizio: innocuo ma insistente, come quei tarli nella madia che ti lasciano briciole di legno fra i maglioni. È una storia, la sua, che ha finito per rimanermi dentro. Penso sia inevitabile.

Alla deriva insperata di Vedova: il Tintoretto in piedi

Luce.
“Tentare di spiegare un quadro è come tentare di spiegare tutta la tua vita. E questo non è possibile”.
Una vita strabordante. Un talento inimmaginifico. Una mente ingarbugliante. Un fraseggio forsennato. Stridente. Acuto come l’inno d’un asceta. Scheggiato. No. Ce lo dice stesso lui. “Una regia sincopata”. Come le sue braccia. Lunghe e possenti. Che striano profili delle chiese macchiolate di petrolio coagulato riflettono, infrangendosi sulla superficie dei canali, i tortuosi calli della mente di quest’uomo dal corpaccione gigantesco. Andatura beccheggiante come un riff jazz.

Dopo di noi, il teatro

Non a tutti è stato dato di osservare da vicino il Diluvio.
   Si immagina l’umore di quelli che, avendolo presentito,
non vissero abbastanza per potervi assistere.
(Squartamento
, E.M. Cioran)


Il ritorno a teatro può insegnare molte cose. Può impartire lezioni diverse rispetto, per esempio, al ritorno al cinema. C’è un’aria mesta, la sera del 21 ottobre, al Mercadante. Anche se più che sera è un tardo pomeriggio. Aria di veglia, di commemorazione. Si parla poco nel vestibolo. E sottovoce. Anche al buio riconosci le vecchie signore, sempre tante, da come si rischiarano voci logorate da sigarette incatramate, dai loro profumi dolciastri o dalle permanenti appena fatte. I giovani, non a caso, sono pochi. Le maschere sui tacchi camminano ininterrottamente, in un andirivieni simile alle vasche di un nuotatore.

Indagine virtuale sul reale, al di sopra d'ogni sospetto

Impossibile parlare dello spettacolo in RV (vincitore del premio Migrarti del MiBACT dal Festival del Cinema di Venezia), prodotto da Pierfrancesco Pisani (che ha prodotto, fra gli altri, Andrea Cosentino, Valerio Binasco, Iaia Forte, Sabrina Impacciatore, Isabella Ragonese, Alessandro Roja) di Omar Rashid e di e con Elio Germano (bello, importante, necessario... lo spettacolo, non Elio Germano) senza contestualizzarlo in almeno due linee di discorso: una è, prevedibile, quella del nuovo medioevo in cui l’avvento del Covid ci ha catapultati. L’altra, non meno ovvia, è quella dell’annoso dibattito fra le due frange: quella del teatro ripreso sì o ripreso no (spoiler: la soluzione migliore è ni). Trattiamo prima (forse solo) del secondo ambito. Ha il teatro ripreso cinematograficamente (o peggio ancora, televisivamente) pari dignità del teatro live action?

L'indimenticabile "Cupa" di Borrelli

Se è vero com’è vero che Borrelli è il miglior drammaturgo vivente.
Se è vero com’è vero che è il nuovo Gadda.
Allora La Cupa è il suo pasticciaccio brutto. La sua summa. Almeno per ora.
Che poi di pasticciato non ha nulla. Anzi. È una macchina spietata e perfetta. D’altra parte è qualcosa a cui lavorava da anni. Come da anni covava l’idea di farsi crollare un pianetoide addosso, sul palco.

Malacarne, Malarazza, Malammore: Malacrescita

Malacrescita

Accoglie di spalle, il suo pubblico in sala, Mimmo Borrelli, attendendo che prenda, rumorosamente, posto. Avviluppato in una palandrana dickensiana, sdrucita, quadrettata come un tartan, spia di sottecchi, divertito, gli occhi piccoli, incastonati fra le guance floride. Lo spettacolo inizia. Sarà una lunga cavalcata, una tirata via (It’s just a ride, per parafrase Bill Hicks), che, come una rete a strascico, calerà sugli spettatori e li strattonerà via dalle loro sedie, scarnificandoli d’ogni certezza, investendoli con la sua irruenza. Comincia a disegnare dei giri sul palco, Mimmo Borrelli, circumnavigando un pentacolo di bottiglie vuote (verdi, quelle delle passate, delle sarse che, ogni agosto, come un rito, si rinnova, ancora, nelle case di alcuni meridionali), come i fortini che i bambini improvvisano, con gli oggetti da casa, per giocare.

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il Pickwick

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