“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Viviana Calabria

(Ri)educhiamoci ai sentimenti

Avvertenza: se fare i conti con la realtà vi provoca agitazione, non leggete questo articolo. E non leggete Nuovissimo Testamento di Giulio Cavalli.

Tra logica e morale. A partire da un funerale

Non capirò mai perché, ai funerali, cercano sempre di farci credere che c’è una vita dopo la morte e che il defunto, da vivo, non aveva difetti. Se esistesse davvero un Dio misericordioso, sarebbe lecito domandarsi in virtù di quale capriccio ci lasci ad aspettare per decenni in questa valle di lacrime prima di concederci la vita eterna; e se davvero gli uomini si comportassero in modo così virtuoso come ci viene detto a posteriori, allora l’umanità non conoscerebbe né le guerre né le ingiustizie che affliggono gli animi sensibili.

L’importanza dell’ascolto: intervista ad Anny Romand

“La memoria è il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé”.
 
(Oscar Wilde)

 

Mia nonna d’Armenia parla di memoria e di diario. Anny Romand, autrice del romanzo, ne è anche voce e protagonista insieme alla propria nonna.

La morte come rinascita del sé

Si dice sempre che nei romanzi è presente gran parte del vissuto dell’autore o autrice. Che siano eventi realmente vissuti o idee ben radicate, personaggi e situazioni risentono dell’influenza di chi li crea.
Nell’esordio di Francesca Guercio, O d’amarti o morire, pubblicato da Alessandro Polidoro Editore, l’influenza proviene dai suoi studi nonché passioni principali: il teatro e la filosofia. Consulente filosofica, attrice e regista, scrittrice saggistica, oserei dire sperimentatrice. Sperimenta con la lingua, con il ritmo, con i generi e, a sua insaputa, crea un testo adatto per il cinema, ancora meglio per una serie tv e, in parte, per una riduzione teatrale.

“Self-made” e il riscatto della donna

Lo dico subito: Self-made: la vita di Madam C. J. Walker non è un prodotto qualitativamente alto, non ne ha la pretesa, ma ha il pregio di raccontare una storia, vera, di un personaggio che ha costruito da sé la sua fortuna e che ha speso il suo tempo a combattere anche per gli altri. E lo ha fatto da donna.

Confini fisici e mentali nell’opera di Esmé Weijung Wang

“Una prigione diventa casa se possiedi la chiave”
 George Sterling

    

 

“Non volevo farla finita vicino a casa, dove avrebbe potuto trovarmi mia moglie, oppure, ed è ancora più terribile pensarci, i miei figli. [...]. Non ho fatto altro che causare problemi a tutti e tre, e la cosa peggiore è che mi amavano lo stesso; e quindi non so proprio come questo possa essere altro che un tradimento e un’ingiustizia”.

La guerra è uno scambio... alla pari?

“Se sulla guerra vuol campar
Qualche cosa gli dovrà dar”
.


 
Che cosa chiede la guerra in cambio? Sacrificio, disciplina, uomini. Vittime. Coraggio.
E Madre Courage ne ha da vendere, di coraggio e di sacrificio. Ed è una vittima, una sopravvissuta.
È lei a prendere la parola per prima sul placo, lei al centro del palco, affiancata da quelle che man mano si scopriranno essere le altre figure della rappresentazione. Lo sguardo compie una carrellata veloce, incuriosita da quelle figure di spalle su un fondo che appare nero, ma si sofferma su quella centrale, che spicca per il colore rosso della pelliccia.

“Creditori”: rimodulare l'arte a propria immagine

"Si vive accanto a una donna per anni senza farsi alcuna domanda
su di lei e sul rapporto che si ha con lei, finché un giorno cominci
e non riesci più a smettere”
.



La scena si apre su una stanza (teatrale) delimitata da mura di ferro, una gabbia fatta di pochi elementi: un divano che diventa un letto, bianco, simile a quello che ci si immagina di trovare nello studio di uno psichiatra; una sedia; due grucce esposte alla parete: posto più adatto a una spada da collezione; giornali infilzati in proscenio, con le loro recensioni, e qualcosa di coperto che sta su un tavolino.
Nulla fa presagire che ci si trovi in una stanza di un albergo.

Un “1984” classico e nero

Prima a Napoli, 27 novembre. 1984 di George Orwell.
“Il regista scozzese, dunque, rilegge 1984 spostandolo in un’era caratterizzata dal controllo da parte dei Big-Data e degli algoritmi dei social media” si legge sul sito del Teatro Bellini.
Una sperimentazione su un classico della letteratura dunque, verrebbe da pensare. È sempre un azzardo, il più delle volte poco riuscito, ma la curiosità ha il sopravvento.

La verità fa male più di un colpo di pistola

Napoli, anni ’80.
Siamo in un vicolo della città, sotto la finestra di una casa abitata da padre e due figli, Erica e Peppe: la famiglia Caruso. È una serata come tante quando Francesco Gargiulo si presenta sotto il palazzo per riportare il cardellino fuggito al suo amico. Pochi scambi e un tonfo. Peppe Caruso è a terra, inerme.
Arrivano gli amici, il padre e la sorella, arriva don Bartolomeo, il nuovo parroco. Pianti, urla, occhi bassi. Lo sanno tutti cosa è successo, chi è stato, ma nessuno parla. Peppe voleva fare l’eroe, voleva ribellarsi a un sistema che è così da anni e non può essere debellato. “L’eroe serve solo a morire. Io non volevo un leone ma un figlio dentro casa” sono le parole di un padre che non può nulla perché vendicarsi significherebbe morire, e significherebbe mettere in pericolo quella figlia che, a differenza loro, sta studiando dalle suore per diventare maestra. Ma quella figlia non è più una bambina che deve essere tenuta lontana dal centro di tutto e dalla verità.

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il Pickwick

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