“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 11 December 2013 00:00

Di prigione si muore

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Dieci anni fa si uccideva Armida Miserere, direttrice del penitenziario di Sulmona. Era la sera del venerdì santo, e dopo aver vergato su un foglio di carta le sue ultime volontà (tra cui quella di venir cremata e di far spargere le sue ceneri al vento) si sparava un colpo alla tempia con la sua pistola d’ordinanza. Era aprile anche nel 1990, quando altri colpi di pistola freddavano il suo compagno Umberto Mormile, educatore nel carcere di San Vittore – mentre lei era la direttrice di quello di Lodi – sparati da un killer su una moto, ad un semaforo, in pieno giorno. Omicidio che resterà un mistero per ben undici anni per la giustizia italiana, risolto grazie alle rivelazioni di alcuni pentiti coinvolti in altri processi, ma che per Armida si palesa fin da subito come una punizione per qualche “sgarro” che il suo uomo, semplicemente rimanendo fedele alla sua deontologia professionale, aveva fatto al crimine organizzato.

Il film inizia con le immagini di quel venerdì del 2003, mentre il ricordo atroce di quella primavera milanese si alterna alle azioni quotidiane per prepararsi al lavoro. Da qui la narrazione si riavvolge fino alla fine degli anni Ottanta, quando Umberto e Armida decidono di avere un figlio, tra l’incedere risoluto della direttrice per i corridoi su cui si affacciano le celle, le preoccupazioni per un ambiente di lavoro duro, se non ostile (Armida era una delle prime direttrici di carcere, e a ventotto anni era già responsabile di quello di Parma), le prove degli spettacoli teatrali con i detenuti condotte da Umberto, le cene con gli amici, gli slanci della passione e le complicità di coppia. Il brutale assassinio del suo uomo cancella per sempre qualsiasi possibilità di normale esistenza, di ricominciare con un nuovo amore, con dei figli.
Armida è una donna guerriera, e come tale il destino non le riserva i consueti ruoli di moglie e madre: anche quando all’orizzonte si profila un amore sincero, la realtà le riserva un’amara delusione. Del resto la sua carica le impedisce di radicarsi in un luogo: e così passa a Pianosa, poi è chiamata da Giancarlo Caselli all’Ucciardone a Palermo, fino a dirigere il carcere di Sulmona. Unici amici sempre presenti, i suoi cani, oltre alle due guardie del corpo che la seguono nei suoi spostamenti.
La sceneggiatura di Marco Simon Puccioni, Heidrun Schleeef e Nicola Lusuardi si cimenta nel difficile compito di mediare tra il rispetto degli eventi, e soprattutto di una persona di cui è ancora forte il ricordo e il dolore per la sua assenza, e le esigenze della narrazione per immagini, evitando in ciò facili sensazionalismi e consuetudini retoriche da linguaggio televisivo. Lasciando però in sospeso argomenti che sarebbe stato più utile introdurre per conferire al film un più vasto orizzonte di senso. In sostanza ciò che manca è la descrizione del modus operandi della Miserere, del suo essere una figura importante della gestione carceraria italiana, della sua personalità determinata che non l’ha resa una semplice burocrate. Manca inoltre la descrizione coeva di quegli anni fondamentali per le sorti della Prima Repubblica e della mafia, con i grossi rivolgimenti politici e giudiziari dei tempi, cosa che avrebbe inquadrato meglio il personaggio e la sua rilevanza.
Spiace però che la giusta sottoesposizione dei caratteri, il loro delinearsi tra gli assestamenti che la vita quotidiana controbilancia ai colpi del nemico, il loro understatement cioè, sia reso dalla Golino con una recitazione ancora più pacata del solito, aliena da guizzi e scene madri anche quando ce ne sarebbe bisogno. Colpa condivisa anche da Timi, qui più trattenuto che altrove, il quale non riesce ad eliminare un senso di accademia, specie in alcune scene clou (come la scoperta della gravidanza di Armida e quella della fine della stessa). Una recitazione un po’ più decisa, un montaggio più serrato avrebbero giovato al ritmo della narrazione, senza per questo snaturare la realtà dei fatti. Elementi che avrebbero reso più chiaro il motivo a base dell’insano gesto della protagonista, che ne avrebbero favorito il senso (al di là del dolore per il discredito e le insinuazioni contro Mormile fatte al processo in corte d’assise).
Il biopic è un genere di cui la televisione si è impossessata, almeno qui in Italia, e compito del cinema è sottolineare lo scarto da una narrazione purtroppo piatta e prevedibile che assilla tante produzioni destinate al piccolo schermo. Che poi esistano degnissimi esempi di film per la tv negli altri paesi (specie oltreoceano) fa ben sperare che anche i tvmovie italiani possano ambire ad una qualità migliore di quella attuale, ma il cinema può e deve continuare a raccontarci di storie realmente accadute rispettando una sua dignità e un suo stile.

 

 

 

 

Come il vento
regia Marco Simon Puccioni
con Valeria Golino, Filippo Timi, Francesco Scianna, Chiara Caselli, Vanni Bramati, Marcello Mazzarella, Salvio Simeoli, Pino Calabrese
soggetto Marco Simon Puccioni
sceneggiatura Marco Simon Puccioni, Heidrun Schleef, Nicola Lusuardi
distribuzione Ambi Pictures
fotografia Gherardo Grossi
musica Shigeru Umebayashi
paese Italia
colore colore
anno 2013
durata 110 min.

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