“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 22 December 2012 17:39

L'opera buffa napoletana

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Il binomio Napoli e musica evoca immediatamente l’inestimabile patrimonio della grande canzone napoletana la quale, attraverso i suoi “topoi” letterari, la sensualità delle sue melodie, ha contribuito a rendere Napoli celebre nel mondo.
Basterebbe quale unico esempio l’universalità della canzone ‘O sole mio per testimoniare il successo planetario delle melodie napoletane, amate ed interpretate dai più grandi cantanti lirici della storia, in primis quell’Enrico Caruso nei confronti del quale la sua città natale fu ingiustamente avara di successi.

Eppure, accanto a questo patrimonio noto in tutto il mondo, la città della Sirena Partenope (il canto, la musica erano evidentemente nel codice genetico sin dalla sua origine mitologica) può legittimamente vantarsi di essere stata nel ‘700 una delle più importanti capitali musicali europee.
Dai suoi quattro Conservatori (Santa Maria di Loreto, Pietà de’ Turchini, Sant’Onofrio a Capuana e I poveri di Gesù Cristo), attivi per scopi filantropici sin dalla metà del XVI secolo, sono usciti fior di compositori che hanno dominato le principali Corti europee e infiammato accesi dibattiti sull’opera nell’allora capitale morale europea, Parigi.
L’"opera buffa": se l’opera lirica è prodotto culturale tipicamente e geneticamente italiano, quella buffa ha un certificato di nascita che ne attesta geograficamente i suoi natali a Napoli, nel popolare Teatro San Bartolomeo la sera del 28 agosto 1733, quando un giovanissimo compositore marchigiano, Giovan Battista Pergolesi (1710- 1736), mette in scena il suo “intermezzo” più famoso, La serva padrona, all’interno dell’opera seria Il prigionier superbo.
Di quest’ultima opera le rappresentazioni sono divenute sempre più rare, mentre oggi, a distanza di quasi duecentottanta anni da quella sera del 1733, La serva padrona incanta ancora con la freschezza delle sue melodie le platee di tutto il mondo.
L’opera buffa, nata letteralmente “all’interno” dell’opera seria, quale "intermezzo", una sorta di "ricreazione" musicale tra gli atti lunghissimi - probabilmente già all’epoca noiosissimi! - delle opere serie, soppianta un po’ alla volta la sua anziana e attempata genitrice.
L’opera seria, evasione culturale di corti incipriate e imparruccate, viene spazzata via "con" e "insieme" all’ "ancien régime".
Amori interclassisti (e nell’Europa ancora cronologicamente distante dalla Rivoluzione francese del 1789!), sagacia femminile, travestimenti con susseguente agnizione finale costituiscono i temi centrali e innervanti del nuovo genere musicale, seppur stereotipati e modellati sulle figure della Commedia dell’Arte.
Poseidone, Giove, Persefone, i tanti tronfi generali dell’antichità, le varie Didone abbandonate cedono il posto a personaggi calati nella vita reale, carnali e palpitanti, che amano e ridono come la gran parte degli abitanti di “quel paradiso abitato da diavoli” (Goethe) che era (ed è) Napoli.
Ed ecco che la genuinità e la semplicità delle melodie, oscillanti tra un’irrefrenabile allegria e un’onnipresente latente malinconia stemperata nelle frequenti modulazioni "in minore" e nell’accordo "di sesta napoletana", si contrappone brutalmente alle infinite arie, alle iperboliche ed artificiose volute vocali dei castrati dell’opera seria "ante" riforma gluckiana.
L’opera buffa, nata in un teatro popolare antistante al porto di Napoli, assecondando la sua vocazione, diventa "lo" spettacolo popolare dell’epoca, capace di attrarre e appassionare gli strati più umili della popolazione, nella città di Napoli che storicamente assiste alla quotidiana, chiassosa e pacifica commistione di plebe e nobiltà.
Varcati i confini del Regno napoletano (la Napoli del ‘700 era la più popolosa città italiana, nonché tra le più grandi città europee insieme a Londra e Parigi), sarà proprio una rappresentazione del capolavoro pergolesiano nel 1752 ad innescare nella Capitale francese la cosiddetta "Querelle des Bouffons": vivace contrapposizione culturale tra i sostenitori della melodicità dell’opera di Pergolesi, della semplicità e della freschezza del soggetto e l’artificiosità e la prolissità dell’Acis et Galatée di Jean-Baptiste Lully, musicista fiorentino, ma francese d’adozione.
Parigi vide contraporsi due schieramenti: uno, che annoverava, tra i tanti, Jean-Jacques Rosseau e Diderot; il gruppo degli enciclopedisti lodò l’opera buffa italiana per la sua attualità e facile intellegibilità delle sue melodie; l’altro schieramento, costituito principalmente da ricchi e potenti, sosteneva la musica francese di Lully e Jean Philippe Rameau.
La prematura ma prolifica eredità di Pergolesi, morto a soli ventisei anni al culmine di una carriera musicale che lo avrebbe potuto rendere il Mozart italiano, fu raccolta da Cimarosa e Paisiello, giusto per citare due tra i tanti ambasciatori dell’opera buffa nell’Europa del XVIII e XIX secolo.
L’aversano Cimarosa (1749-1801), educato alla musica nel Conservatorio napoletano di Santa Maria di Loreto, chiamato dalla zarina Caterina II di Russia alla Corte di San Pietroburgo come maestro di cappella, vi rimase dal 1787 fino al 1791.
Lasciata la Russia e diretto verso l’Italia, il 7 febbraio 1792 a Vienna fece rappresentare al Burgtheater il suo capolavoro, Il matrimonio segreto.
Caso unico nella storia della musica, l’imperatore d’Austria Leopoldo II in persona, terminata la rappresentazione, intimò il "bis" dell’intera opera la sera stessa della sua prima rappresentazione.
"Musica piena di sole", fu l’icastica definizione della musica di Cimarosa formulata dal temibile critico Eduard Hanslick (1825-1904), praghese di nascita, ma viennese autentico, fervido oppositore di Wagner.
Il sole di Napoli e del meridione italiano (i Conservatori partenopei accoglievano al suo interno musicisti provenienti da tutte le regioni del Regno di Napoli, esteso dal Golfo di Gaeta sino alla Sicilia), la vitalità della musica, la soavità delle melodie conquistarono definitivamente quella che è indiscutibilmente la capitale mondiale della musica, la città in cui vissero e morirono Mozart, Beethoven e Schubert: Vienna.
Mozart, morto povero e sepolto nella fossa comune proprio nella capitale austriaca nel 1791, non è musicalmente concepibile, almeno per la produzione di opere liriche in italiano, senza la lezione della scuola musicale napoletana, da lui magistralmente assimilata ed elaborata.
Capolavori quali Le nozze di Figaro e, soprattutto, il napoletanissimo Così fan tutte  sono i discendenti nobili di quell’opera nata sulle tavole del piccolo Teatro San Bartolomeo.
La "Despina" del Così fan tutte è l’evoluzione musicale - e, soprattutto, psicologica - della Serpina pergolesiana; i finali del II e del IV atto de Le nozze di Figaro, pur nella loro sublimità prettamente mozartiana e nello scavo psicologico dei personaggi, sono anche l’evoluzione dei tanti “finali I atto” delle opere di Cimarosa e Paisiello (in particolare Re Teodoro in Venezia di Giovanni Paisiello; Vienna, 1784).
E il Così fan tutte, ambientato proprio all’ombra del Vesuvio, può essere immaginato quale omaggio estremo del compositore salisburghese alla gloriosa scuola musicale partenopea, un ritorno ideale dell’estremo Mozart a quel paradiso - seppur, come detto, popolato da diavoli! - che è Napoli e che lo vide quattordicenne accolto alla corte della regina Maria Carolina d’Austria.
La filosofia di vita di Despina è l’evoluzione dell’astuzia di Serpina; il relativismo di Don Alfonso è tipicamente partenopeo, la simmetricità del gioco dei personaggi, la sensualità delle melodie ("E nel tuo, nel mio bicchiero…", "Il core vi dono..."), i travestimenti dei due fidanzati strizzano l’occhio a quel materiale tematico dell’opera buffa dei primordi.
Il tarantino Paisiello (1740-1816), epigono della gloriosa opera buffa, creatore di un capolavoro quale la commovente Nina, o sia la pazza per amore (si ascolti la sublime aria di Nina Il mio ben quando verrà, con quel dialogo struggente tra flauto e voce umana), si trova a dover contrastare, suo malgrado, l’irruzione sulla scena operistica di un altro debitore della scuola napoletana, il quale, saldato il debito, ha costruito una meritatissima fortuna musicale, il pesarese Gioacchino Rossini (1792-1868).
È concepibile il finale dell’atto I del Barbiere di Siviglia o del I atto de L’italiana in Algeri, de Il Turco in Italia senza il surreale finale dell’atto I de Il matrimonio segreto di Cimarosa?
Oggi la scuola napoletana si vede attribuita quell’importanza che le compete, soprattutto grazie all’instancabile attività di ambasciatore della cultura italiana e napoletana nel mondo del grande direttore d’orchestra Riccardo Muti, il quale pochi anni fa dedicò un progetto triennale all’interno del Festival di Pentecoste di Salisburgo proprio ai tesori musicali napoletani del ‘700.
Ed oggi Serpina, Uberto, Paolino, Carolina, Nina, Fidalma, Don Geronimo calcano ancora i più prestigiosi teatri del mondo regalando sorrisi e leggerezza, come quella sera al teatro San Bartolomeo di quasi duecentottanta anni fa.

 

 

 

 

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