“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 December 2012 10:29

Della tempesta, solo l'accenno

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Sette citazioni da cinque opere di quattro autori diversi. Pannelli che rimandano immagini di correnti d’acqua, di bolle, di spuma che si forma alla superficie per sparire nello stesso rollio delle onde. Corpi, impalliditi dalla loro collocazione subacquea, che tentano di salire alla luce. D’intorno mattoni e mattoni che fanno da muri, con la speranza che le immagini ne infrangano la pesantezza rossiccia. Gli spettatori in cammino mentre il medesimo interprete, mutando d’abiti, legge ciò che ha da leggere.
La settima onda di Greenaway è, tuttavia, innanzitutto l’inchiostro di quelle parole di quelle frasi tratte da quelle opere. Poste in fila, lette e rilette, dovrebbero dare il senso dell’opera. Proviamo, insieme, a ripassare le sette citazioni.

La prima è composta dai dodici versi iniziali de La ballata del vecchio marinaio di Coleridge. “C’è un vecchio marinaio”, “barba grigia e occhi ardenti”, che “a un tratto” ferma un uomo diretto a delle nozze. “Per quale motivo ora tu mi fermi? Lasciami, vecchio dalla barba grigia! Giù la mano!”. Il braccio, scarno, vetusto, macchiato decade “ma coi suoi occhi ardenti” il vecchio riesce ugualmente a bloccare il passante che “resta fermo e muto e, come un bimbo di tre anni, ascolta”. “C’era una nave…” comincia l’anziano.
Il marinaio “è il suo padrone” mentre l’uomo, in balia del racconto, ne è l’automa, il pupazzo, il “burattino”. La prima citazione consente a Greenaway di presentare la figura che accompagna gli spettatori all’interno del luogo: un attore, barba bianca ed abiti da marinaio, ci ferma coi suoi “occhi ardenti” perché ha da raccontare. Lui è il padrone, noi i suoi burattini. L’attore – tuttavia – rimanda al Prospero, che con la sua arte magica, fa sorgere dal nulla la storia che intrattiene gli spettatori de La tempesta e, forse, in ulteriore allusione richiama l’autore medesimo – Greenaway – che, per indiretta persona, ci accompagna tra le immagini e i termini.
La seconda citazione, tratta da La tempesta di Shakespeare (atto secondo, scena prima), ci dice che un corpo è “là nel fondo, a cinque tese”: l’immersione fa delle “sue ossa” corallo, dei “suoi occhi” perle. “Tutto di lui, destinato a svanire, subisce ora dal mare un mutamento in qualche cosa di ricco e di strano”. I versi di Shakespeare permettono a Greenaway di narrare l’acqua come abisso e l’abisso come condizione metamorfica, con la quale ciò che vive apparentemente fissato (il corpo) muta la propria natura: corallo dalle ossa, perle dagli occhi: tutto cambia al contatto con l’acqua per divenire diverso, “qualche cosa di ricco e di strano”. Una possibilità è il mare, questo mare non è il mare ma l’Arte: il corpo (l’uomo) a contatto con l’Arte (cinema, letteratura, musica, pittura, teatro: le arti praticate da Greenaway) diviene diverso, ricco e strano. Greenaway – comprendiamo – racconta la forza mutante dell’Arte, che plasma e riplasma ciò di cui prende possesso. A cominciare dall’uomo che vi s’inabissa. Qui il rimando all’opera del Bardo, naturalmente, è diretto: il finto naufragio, la persistenza su un’isola che è un palcoscenico, la condizione uterina della malia perché produca catarsi.
Quando l’uomo (e quando l’uomo-Greenaway) necessita di inabissarsi nell’acqua, ovvero nell’Arte? La terza citazione, incipit del Moby Dick di Melville, risponde al quesito: “Chiamatemi Ismaele”. Le prime due parole già tutto dicono del cambiamento avvenuto (lontana è l’identità passata, “Ismaele” è già nuova forma). Ismaele ci dice che naviga per “cacciare la malinconia”: “Ogniqualvolta  mi accingo a mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto per fare da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umore nero mi invade” allora “io reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare” e d’inoltrarmi – aggiungerebbe il Greenaway/Ismaele – nell’Arte, che tutto tramuta, che tutto ricambia. E forse Prospero, mentre il perfido fratello svela la “sua natura diabolica”, non si sospinge “con furia in una barca”, “a qualche lega in altomare”, “a piangere sul mare che urlava intorno a noi, a sospirare ai venti che, pietosi, ricambiavano i nostri sospiri”? Il viaggio in mare – l’andare verso l’Arte – “mi diede forza di sopportare il dolore e di resistere alle avversità”: ancora Prospero, ma non vale solo per Prospero.
Quarta, quinta e sesta citazione sono tratte dalla Questio de aqua et terra di Dante Alighieri (paragrafi secondo, terzo e quarto). Con essi si dibatte de “la forma dei due elementi dell’acqua e della terra” per stabilire a quale spetti una superiorità di conformazione, di luogo, di livello ovvero una capacità d’essere pregio e beatitudine e nobiltà ulteriore. “Poiché il centro della terra è il centro dell’universo” (antropocentrismo ancora valido, a dispetto di Copernico) “e poiché tutto ciò che nel mondo occupa una posizione diversa da tale centro è più alto, è logico concludere che la superficie dell’acqua è più alta della superficie della terra” e che questa maggiore altezza ne fa “corpo più nobile” per “luogo più nobile”: l’acqua, in quanto “corpo più nobile della terra”, è più in alto e dunque più vicino “al nobilissimo onniabbracciante primo cielo”. L’acqua, ovvero l’Arte, è nobile più della sua assenza, ovvero: ciò che è fisso (la terra, l’uomo, il corpo) s’innalza – per azione dell’acqua (dell’Arte, delle arti) – attraverso la sua mutazione, così da sfiorare il “primo cielo”. Elogio a questo mistero mutevole che consente ad un individuo qualsiasi di produrre cantiche, commedie e tragedie, regie intraprendenti, suoni mai prima ascoltati e scorci dipinti con colori impensabili, grandi romanzi di mille e più pagine, pochi versi che rimangono fissi all’udito: ecco il senso delle tre citazioni dantesche. L’acqua, l’arte, la spinta – dall’abisso – al primo cielo. “Il vostro incantesimo”, sussurra Ariele a Prospero, “agisce così forte su loro che ora il cuore sarebbe tenero a vederli”. Potere di quest’incantesimo, che muta gli uomini in altri uomini sospingendoli ad altezze impensabili.
La settima ed ultima citazione ha funzione d’epilogo, di saluto e abbandono. Ancora Dante ma Purgatorio (canto XXXIII, versi 142-145). La riportiamo per intero: “Io ritornai da la santissima onda/ rifatto sì come piante novelle/ rinovellate di novella fronda,/ puro e disposto a salire a le stelle”. Ciò che c’era non c’è più; ciò ch’era statico ha mutato d’aspetto; ciò ch’era vecchio rinnovato rivive. L’artista (il corpo dell’uomo inabissatosi e sospinto all’altezza dall’Arte) è “rifatto sì come piante novelle” – nuova creatura da creatura passata – ed ora è “disposto” (nella condizione di) “salire alle stelle”.
Prospero: “Rinnego, ora, la barbara magia e quando avrò chiesto, come qui chiedo, un’armonia celeste che con aereo incanto agisca sui loro sensi – era questo l’intento – spezzerò la mia verga e la metterò giù sotto terra, e là, dentro il mare, dove non giunge lo scandaglio, affonderò il mio libro” (atto quinto, scena prima). L’opera giunge al termine, “era questo l’intento”: produrre “un’armonia celeste che con aereo incanto agisca” sui sensi degli spettatori raccontando – ad un tempo – il valore dell’Arte, la sua forza rinnovatrice, la pulsione alla vertigine ch’essa produce dopo la discesa all’abisso. In più: un’indiretta confessione autoriale, di chi in profondo vi si reca assai spesso per tentare e ritentare di sollevarsi al primo cielo.
La settima onda di Greenaway è stato – per chi scrive – ciò che è appena stato scritto. Con una considerazione ulteriore, che segnala un limite al tentativo: la durata dell’immersione – nelle immagini e nelle parole – è troppo breve: una trentina di minuti assai scarsi. Quando stavamo abituandoci alla condizione avvolgente (la schiena cominciava a curvarsi un pochino, il passo sentiva il morbido dell’acciottolato più duro, le pareti stavano iniziando a sgretolarsi d’azzurro) siamo stati tirati via dall’amniotico luogo della performance. Alla pelle è rimasta una sensazione soltanto, una breve patina passeggera (passeggera quanto un’esperienza eccessivamente scorciata) il cui valore di permanenza è stato ricostruito a posteriori: alla scrivania dove, a leggere e rileggere in sequenza le citazioni, abbiamo rivissuto il percorso.
Aver percepito in maniera immediata e diretta, senza aggiunta d’analisi successiva, avrebbe dato una soddisfazione maggiore. Ma per essa occorreva il tempo, la pazienza, un altro giro, un altro giro ancora.

 

 

 

The Seventh Wave/La settima onda
da La tempesta
di William Shakespeare
regia Peter Greenaway
con Andrea Carraro
video editing Irma de Vriers
soundtrack Stefano Scarani
programmazione e videomapping Andrea Bianchi, Matteo Massocco, Valeria Palermo
a cura di Franco Laera
produzione CRT Artificio
durata 30’
Salerno, Teatro Antonio Ghirelli, Altoforno Ex Salid, 20 dicembre 2012
in scena dal 12 al 30 dicembre 2012

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