“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 09 September 2013 02:00

La parola ai giurati o della Verità

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Dodici giurati si riuniscono per deliberare. Il caso è stato illustrato nel processo in modo molto chiaro. Un giovane ha ucciso suo padre. Il verdetto di colpevolezza all’unanimità decreterà la condanna a morte del parricida. Viene effettuata una prima votazione e, a sorpresa, uno dei dodici vota “non colpevole”. Vengono esaminate una ad una tutte le prove ed i passaggi processuali. Aumentano le perplessità dell’unico votante innocentista che, poco alla volta, riesce a persuadere altri membri della giuria formando così due fazioni, colpevolisti ed innocentisti. Il motore che muove le idee del primo giurato innocentista è un ragionevole dubbio che lo porta a considerare tutto il processo con scetticismo. La sua posizione è chiara: la giurisprudenza non è una scienza esatta e non possiamo condannare a morte un individuo se non si è incontrovertibilmente certi della sua colpevolezza.
Il tema centrale del film appare evidente fin dalle prime battute, l’inconoscibilità della Verità.

In questione non c’è l’esistenza stessa del Vero, che ci sia (senza scomodare troppo Kant) un noumeno oltre il fenomeno non è messo in discussione, ma la consapevolezza di tale scissione tra noumeno e fenomeno è ciò che deve farci desistere dall’affermare con certezza qualsiasi postulato, a maggior ragione quando ne va della vita di un altro essere umano. Le prove a sostegno della colpevolezza del ragazzo vengono riesaminate e confutate tutte, evidenziando la pregiudizievole visione aprioristica dei sostenitori. Questi, spinti dal loro carattere, dalle loro esperienze, insomma dalla loro visione del tutto soggettiva dei fatti, oscurano quel ragionevole dubbio che dovrebbe animarli e si schierano senza indugi per la colpevolezza. Anche gli innocentisti hanno un parere del tutto soggettivo ed opinabile, ma questo non è in discussione. Il primo giurato innocentista lo ammette fin da subito, lui stesso afferma che potrebbe sbagliarsi, che forse il ragazzo è davvero colpevole, ma in tutta coscienza non si sente sicuro di condannarlo a morte, perché sa che non ha quella certezza epistemologica per farlo. La sospensione di giudizio che abbiamo di fronte al problema della Verità (fenomeno/noumeno) può essere sintetizzata con un breve accenno del principio di indeterminazione di Heisenberg. Esso ci dice che, a livello microscopico, l’oggetto esaminato viene modificato dallo strumento esaminante. Per fare un esempio chiarificatore possiamo immaginare di dover controllare se la ruota di una bicicletta è sgonfia. Nel momento in cui inseriamo il beccuccio dello pneumometro nella camera d’aria della ruota ne compromettiamo la sua misurazione effettiva. In poche parole, avremo una misurazione diversa da quella che era in precedenza a noi sconosciuta, prima dell’inserimento del beccuccio (è interessante notare che tale principio di indeterminazione viene utilizzato anche dall’avvocato Riedenschneider per scagionare la sua assistita nel film L’uomo che non c’era dei fratelli Coen). Stando a quanto ci dice anche la meccanica quantistica la Verità rimane dunque insondabile, almeno a livello molecolare. Ma da un punto di vista prettamente speculativo, possiamo dire che tale teoria è attualizzabile anche a livello macroscopico, o se preferite, nella vita quotidiana. La nostra psiche, l’insieme dei nostri processi intellettivi che analizzano i fenomeni, non possono prescindere da se stessi, dalle loro esperienze, dal loro corredo genetico (del resto non siamo forse anche noi semplicemente un ammasso di microscopiche molecole?) e, se è vero che a livello macroscopico non possiamo affermare di compromettere quel campo di indagine con la sola nostra presenza indagatrice, non possiamo certo negare che la percezione che abbiamo di tale indagine è del tutto legata al nostro soggettivissimo percepire. I giurati del film analizzano i fatti in base alle loro conoscenze ed esperienze. Le confutazioni vengono capite ed accettate solo nel momento in cui risultano credibili con la propria esperienza e ragione. C’è una frase nel film, pronunciata da uno dei giurati colpevolisti a discapito del primo giurato innocentista che sta iniziando a convincerne altri, che sintetizza in maniera geniale le possibili interpretazioni della Verità (che a questo punto diventa sempre più una questione individuale): “Questo qui sarebbe capace di convincerti che nel match Dempsey contro Firpo…” poi si ferma. L’uomo, un po’ perché seccato, un po’ perché si rende conto di non aver scelto l’esempio migliore, cambia discorso. L’interruzione palesa l’ambiguità della Verità, ma per interpretarla come l’abbiamo interpretata noi bisogna sapere di cosa si sta parlando (e quindi darne una Verità diversa da chi non conosce questo episodio): Dempsey vs Firpo è un match del mondiale dei pesi massimi di pugilato del 1923. L’incontro passò alla storia per il terribile knockdown subito dal campione americano Dempsey. L’argentino Firpo lo colpì con un destro di tale potenza che mandò il campione in carica addirittura fuori dal ring facendolo atterrare sulla scrivania dei giornalisti. Questi lo spinsero fisicamente a rientrare tra le corde e nel round successivo il campione mandò KO lo sfidante argentino. Un pugile che viene sospinto da altri ad entrare nel ring è un pugile squalificato. Il match andava dunque assegnato a Firpo, ma l’incontro non era in Argentina, bensì a New York, e ciò non avvenne. La verità del match, una verità taciuta dal giurato che lo menziona, è dunque determinata da un luogo, o potremmo dire, da un arbitro, o da una federazione. Insomma, da qualcosa che, se fosse stato altro, avrebbe potuto prendere una decisione diversa. In questo caso quindi, i membri della commissione, i giornalisti, l’arbitro, tutti i presenti all’incontro, hanno determinato (in perfetta simbiosi con il principio di Heisenberg) la Verità dell’incontro. Ritornando ai fatti filmici, le due fazioni sono ormai in parità. Il tipo che ha accennato al match di boxe passa dai colpevolisti agli innocentisti perché ha una partita di baseball da andare a vedere, qualche altro si convince che la testimone dell’accusa non è del tutto attendibile, perché, è vero, quei segni sul naso dimostrano che lei porta gli occhiali e che quindi ha mentito sulla sua eccellente vista. Insomma, la situazione si capovolge in maniera sorprendente, ed adesso undici giurati votano non colpevole ed uno soltanto vota il contrario. Anche lui però dovrà fare i conti con la propria realtà. Mettendosi a nudo svela che la sua posizione irremovibile è dovuta al fatto che nell’imputato vede suo figlio (hanno la stessa età, diciotto anni) con il quale ha violentemente litigato due anni prima. Condannare l’imputato significa quindi punire anche un po’ suo figlio e tutti quei ragazzi che, a detta sua, non hanno più rispetto per i propri genitori. Una volta messa a nudo questa verità, anche lui, l’ultimo dei colpevolisti, si arrende e in lacrime accetta l’innocenza del ragazzo. La giuria ha raggiunto l’unanimità (secondo la legislazione americana, ora come all’epoca del film, solo un verdetto unanime può dare l’esito finale del processo, senza l’unanimità si sarebbe svolto un nuovo processo con nuovi giurati, cosa che durante il film viene più volte ricordata e proposta da quei giurati che sembrano volersene lavare le mani). Non sappiamo se è stata la scelta giusta, o meglio se il ragazzo accusato era veramente innocente (le confutazioni fatte in sede di dibattimento dai giurati non lo scagionano del tutto, ma aprono grandi dubbi sulla sua colpevolezza), da un punto di vista morale il film suggerisce il vecchio detto: meglio un colpevole vivo che un innocente morto. Rimane l’affascinante e ben costruita riflessione sull’intelligibilità del Vero ed il rapporto tutto soggettivo tra l’uomo ed il mondo. Prima regia cinematografica di Sidney Lumet che aveva fino ad allora diretto solo lavori televisivi, e un cast di attori e caratteristi di grande spessore. Impressionante la maestria con la quale il regista racconta i fatti attraverso i vari punti di vista dei giurati. L’intera trattazione è ambientata (salvo qualche piccola scena) in un’unica stanza, e la tensione che si viene a creare tra i giurati con i soli dialoghi a difesa delle loro posizioni è sorprendente. Diverse le candidature all’Oscar, ma nessuna statuetta portata a casa. Nel 2008 è stato classificato al secondo posto dall’American Film Istitute nella lista dei migliori drammi giudiziari di tutti i tempi. Tanti anche i remake successivi, W. Friedkin lo ha riproposto nel 1997 con lo stesso titolo, precedentemente, nel 1986, B. Chatterjee ne aveva proposto una variante indiana, infine nel 2007 il regista russo N. Mikhalkov mette in scena la sua versione che gli varrà il premio al Festival di Venezia.

 

 

Retrovisioni
La parola ai giurati (12 Angry Men)
regia
Sidney Lumet
con Henry Fonda, Joseph Sweeney, Martin Balsam, Lee J. Cobb, Jack Warden, Robert Webber
produzione United Artist
prodotto da Henry Fonda, Reginald Rose
sceneggiatura Reginald Rose
paese Usa
lingua inglese
colore b/n
anno 1957
durata 96 min.

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