“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 10 December 2012 19:35

La pienezza del vuoto

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Il vuoto. Che cos’è il vuoto? Per carità, non ci si impegoli in disquisizione filosofica; ci preme piuttosto ragionar sul vuoto che c’è d’intorno, come qualcosa che ci appartiene e ci pertiene e che talvolta, tentando goffamente di riempire, ci fa sentir misere goccioline in enormi cisterne grigie e mute. Quali sono queste cisterne grigie e mute? Le città in cui viviamo, piene di gente e vuote di vita intellettuale; o quantomeno città in cui le gocce di vita intellettuale si centellinano in cisterne separate in guisa di compartimenti stagni.

Il vuoto di senso di questi nostri tempi fa tristemente pendant con il vuoto d’un crescente numero di tasche, sintomatico segnale di impoverimenti che solo miopie reali o indotte possono non percepire e leggere come connessi a filo doppio: non ci può essere ricchezza materiale laddove c’è povertà culturale.
Il vuoto d’un teatro riempito da pochi è spettro di rifrazione di una società culturalmente in crisi, abbindolata dai mezzi di distrazione di massa, dal rimbecillimento indotto e più o meno inconsapevolmente accettato, talora persino scelto. Ed è paradossale, quasi grottesco, che di questo vuoto si sia fatta scena istoriata, dipingendone sontuoso affresco dal palco di Galleria Toledo. A tener conferenza interdisciplinare in una forma che definir semplicemente teatrale risonebbe limitante, Andrea Cosentino, attore, narratore, conferenziere, puparo, capace di conferire al testo da lui stesso congegnato – e diretto da Andrea Virgilio Franceschi – respiro e profondità tali da farne un piccolo compendio di arti performative. Oggetto di cotanto pregevole patchwork teatrale è l’universo contemporaneo, descritto attraverso il filtro frammentario ed antinarrativo di una performance proteiforme, che prende corpo su una scena vuota di scena, densa di simboli, in cui l’attore è anch’egli simbolo d’attore, che trasfonde se stesso in voce narrante fuori campo, uscendo metateatralmente di scena per svelar l’evidente (“la vecchietta sono io”), per poi tornare attore in corpo d’attore, tra pantomima e narrazione. Il tutto in un repentino sovrapporsi e trasformarsi, spaziando da un grammelot variamente declinato fino a giungere alla deriva ultima dei sottoprodotti da fiction televisiva, resi non da semplice attore, ma da polifunzionale macchina da scena, poliedrico affabulatore, esilarante marionetta, abile puparo, esecutore di un racconto che non è racconto, di una storia che non è storia – o per lo meno non lo è in senso lineare e convenzionale – ma che riesce nell’intento di descrivere un vuoto dall’interno, mostrandone i nudi gangli che ne sorreggono l’esistere.
Sullo sfondo – e a tratti in primo piano, nel gioco del teatro che si fa metateatro – “tranci di vita” usuali e normali, vissuti da un’umanità usuale e normale; quell’umanità cui a pieno titolo afferisce Angelica, l’attrice protagonista di una fiction girata in un condominio romano (usuale e normale anch’esso), cui Andrea Cosentino dà vita nei pochi centimetri quadrati di uno schermo (vuoto), imparruccandosi di biondo e fasciandosi del candido d’un abito da sposa. Angelica, ovvero colei che, emblema d’un tempo effimero e corrotto, non anela ad altro che a “mori’ davanti a un trenta per cento de share in prima serata”. E prova e riprova, reiterando maldestra il rituale di una morte stereotipa e fittizia ad ogni ciak (“mica come nella vita, che quando muori è buona la prima”), ma allusiva dello stillicidio simbolico di cui perisce, giorno dopo giorno, una società sempre più inghiottita nel baratro della propria vacuità.
L’antinomia vita/fiction viene illustrata da un assunto pasoliniano, preso pari pari dalle sue Osservazioni sul pianosequenza: mentre il pianosequenza ferma l’istante all’infinito presente, il montaggio sancisce la morte di quell’istante; allo stesso modo, la protagonista della fiction vede traslare quel suo infinito morire, lungo un intero giorno, in alcunché di definitivo sancito dalla narrazione.
In suo luogo non resterà traccia di gran prova d’attrice, nemmeno negli occhi di quel trenta per cento di share di prima serata, la cui attenzione sarà già voltata, rapita e distratta verso un nuovo vuoto; in suo luogo non resterà altro che quel nuovo vuoto di cui continuare a non accorgersi.
Di questo vuoto, descritto ed alluso con sapiente uso del gioco del teatro, capace di essere non solo teatro, ci siamo accorti applaudendo convinti; di questo vuoto, uscendo da Galleria Toledo, ci siam resi conto d’aver pieni gli occhi.

 

 

 

Angelica
di e con Andrea Cosentino
regia Andrea Virgilio Franceschi
prodotto da Progetti Dadaumpa - Pierfrancesco Pisani
collaborazione alla drammaturgia e alla messa in scena Valentina Giacchetti
Napoli, Galleria Toledo, 8 dicembre 2012
in scena dal 4 al 9 dicembre

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