“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 07 December 2021 00:00

In seno a una tragedia: sull'Amleto di Corsetti

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Amleto nello spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti è un personaggio che interpreta la contraddizione dell’essere considerato pazzo e lo spirito vendicativo a scopo giustiziere. Impulsivo e ironico, provocatore, si ribella all’ingiusta manifestazione di potere di suo zio Claudio, colpevole di essersi macchiato dell’omicidio di suo fratello, dando così origine alla sequela di colpe “oggettive” tipiche dei soggetti tragici.

Amleto, dunque, in quanto tassello di quella catena è chiamato a subire inevitabilmente il destino che ombreggia la sua famiglia e vive, quindi, nel solco della lotta interiore tra la rassegnazione e l’azione sovversiva e, direi, onestamente giustiziera di mettere fine al sistema delle colpe, amando Ofelia e meditando la morte dello zio. L’interprete Fausto Cabra dà una chiave interpretativa naturalistica, ironica, un po' rockettara, nell’atteggiamento fisico e nel look, arricchendo e riscattando la natura prettamente tragica del personaggio shakespeariano. Tale ironia è visibile nei movimenti sensuali e poi provocatori e dirompenti, nelle note ironiche delle inflessioni vocali e nella proposta di una fisicità molto originale.
Amleto, infatti, decretando l’espressione comunemente tipica del dubbio che affligge deontologicamente l’essere umano, appare ex abrupto sul proscenio davanti a un fondale fatto di telo elastico, già in mostra a sipario aperto nei tempi di attesa di inizio dello spettacolo, indossa un abbigliamento casual e parla a tu per tu con il pubblico... essere o non essere... mentre ostenta il pericolo di far cadere dell’acqua sui cavi che di lì a poco collegherà a una ciabatta per illuminare la scena. Ma, in effetti, l’espressione del tragico non si abbatte proprio subito e mai del tutto: citazioni, che poi torneranno nel corso dello sviluppo del testo, animano un’ambientazione da salotto dai toni maliziosi e giudicanti di Amleto con i due amici Rosencrantz e Guildenstern (interpretati da Giovanni Prosperi e Dario Caccuri): dapprima forme che spuntano dal telo e quindi voci che arrivano da un mondo quasi onirico e poi uomini in carne e ossa vestiti in bello stile. A seguito di ciò appare il pezzo forte, ovvero un’impalcatura mobile che fungerà da scenografia mutabile. In effetti, andando avanti nel corso dello sviluppo, la metamorfosi dell’impalcatura, data dalla sua molteplicità di forme, sarà il presupposto di ogni cambiamento di scena e sicuramente le possibilità di conformazioni, usate in relazione alle azioni, danno colore, dinamica e globalità alla recitazione degli attori. Inoltre tale macchina scenica è mossa e articolata dal personale del teatro che, con mascherina e in abiti da lavoro, si muove tra penombra e luce in un’ottica di artigianalità a scena aperta. In effetti sembrano essere presenze invisibili nel senso che, a mio avviso, il pubblico non è per nulla attirato dai loro movimenti a meno che non decida di porvi attenzione per un improvviso desiderio di studio del processo scenico.
Amleto, dunque, vive nell’ombra del disastro familiare e non riesce a capacitarsi della morte del padre e di ciò che ne è derivato, tanto più che quest’ultima è stata provocata dal fratello, ovvero da suo zio che, animato dalle mire espansionistiche verso la bella madre Gertrude ma in maniera più concisa verso l’accaparrarsi del potere, si è macchiato freddamente di omicidio. Il personaggio di Claudio, interpretato dal sempre bravissimo Michelangelo Dalisi, forse qui un po’ congelato dalla troppo fedele adesione interpretativa, è conforme alla regola del peccatore reso innocente da se stesso e accettato come re dall’unanime consenso dei membri di una fantomatica corte; quindi Amleto è il diverso, il frammento dimenticato della famiglia originaria, vuotamente difeso da sua madre, oramai passivamente addolorata ma intenta a far quadrare il carattere di suo figlio nel nuovo nucleo familiare.
Nella prima vera scena teatrale, alla corte di Elsinore, si festeggia insieme all’entourage il nuovo matrimonio e il nuovo re e i personaggi dai sentimenti un po’ vuoti e quelli dalle labili sofferenze ancestrali si riconoscono delineandosi sostanzialmente in due fazioni opposte. L’idea di scenografia verticale permette ai personaggi di abitare lo spazio a strati visibili in contemporanea e in un’ottica di scena apertissima dove nessun dettaglio può nascondersi: in genere i piani alti sono destinati alle strategie dei tranelli o ai pensieri in soliloquio, nei piani bassi c’è in genere la main scene salvo nelle scene in cui la verticalità diventa obliquità e lo spazio raggiunge un potenziale espressivo volumetrico. Questo elemento è caratteristico e determinante come anche la ricerca di formulazione del teatro nel teatro.
Nell’anima caleidoscopica di Amleto vita e teatro si alternano e si confondono continuamente: Amleto, infatti, non a caso, trova in quest’ultimo una forma di distrazione e di facile e immediata attuazione della sua idea di realtà o di risoluzione dei problemi emotivi che lo affliggono. Il suo teatro è un luogo che si materializza in attori-ombre, è un teatro del sogno, dello stato ipnotico, del desiderio libero di esprimersi che può permettersi il lusso di non andare a ritmo con l’andamento della realtà, il segno, espresso, della creatività, dove la follia diventa genio e dove l’arte permette un ristoro momentaneo da una realtà che non piace. L’interrogativo sulla natura psichiatrica del caso della follia che investe Amleto tramuta i personaggi della fazione vs. Amleto in medici investigatori o anch’essi registi di un metateatro tra il sadico e il grottesco. Possibili riferimenti vengono alla mente: Amleto sembra un Oreste che si vuole vendicare del mutamento dei rapporti di potere nella casa familiare, un Astolfo alla ricerca distratta di un senno, in quanto tra senno e follia poco si capisce ed è in tale possibile solco che si gioca tutto lo sviluppo della trama shakespeariana. Amleto, inoltre, viaggia spesso tra palco e platea, si accosta alle prime file degli spettatori per destare attenzione e infondere partecipazione attiva al dramma ma anche per eliminare note possibili barriere o per starci ironicamente sulla soglia. In ogni caso, secondo il re, Amleto deve andarsene dalla terra di Elsinore perché il suo seme, quello ereditato per oggettività di colpa, investirà tutto il regno e quindi lo zio-re supplica davanti ad uno specchio che riflette la maschera di se stesso la buona riuscita dei suoi tranelli. Lo specchio, come il telo del teatro delle ombre, è in effetti l’elemento di appannamento tra un’interiorità che gelosamente desidera e la realtà dei fatti, tra il ritratto reale e crudo del personaggio e quello della maschera che indossa. Realtà, teatro, falsità, vuotezza, stupore misto a indifferenza sono i sentimenti che sono messi in gioco nell’opera di Shakespeare che, nella lingua inglese (play) è, in effetti, un gioco di ruoli e tipologie psicologiche.
Amleto, quindi, è il simbolo dell’innocenza puerile che si concede facile preda dei capricci infantili al variare delle conformazioni familiari: non a caso il personaggio del padre appare più volte per dargli spazi di riflessioni e confronti necessari. Il padre, infatti, è attaccato alla corda degli Inferi, ma ha la possibilità, quasi come la voce della coscienza, di dare rapidi moniti per redarguire i pensieri confusi di Amleto (un padre, tra l’altro, interpretato dallo stesso Dalisi: chissà se per dare immagine di inconsapevole specularità antitetica). Ma mentre sembra una voce della coscienza infusa nel figlio, nel suo apparire fisico sembra anche una sorta di marionetta.
Che dire della madre Gertrude? Una splendida Sara Putignano che soffre nell’indifferenza e nell’assuefazione ai voleri del re, suo cognato, immemore dell’uomo a cui era legata in precedenza, padre di suo figlio, cosciente, appunto, del sentimento che viene dal petto materno, intramontabile, ma non così energico da smuovere gli eventi (in effetti, il personaggio della madre non gioca al tavolo dei potenti nella scrittura del drammaturgo). Dopo che Amleto finalmente viene spedito in Inghilterra, la follia invade Ofelia, sprigionatasi a causa della morte del padre, Polonio, ucciso per errore da Amleto che pensava di star trafiggendo il cuore di suo zio (follia o voglia giustiziera di vendetta e di salvezza?). Per velare il misfatto non viene data a Polonio degna sepoltura e i due figli, allora, Ofelia e Laerte, non si capacitano e danno sfogo alla sofferenza mista a follia che porterà Ofelia alla morte corporale e al destino di anima vagante in pena. Non è, dunque, l’allontanamento fisico di Amleto la chiave risolutiva per rimettere in ordine il regno, e non è per lui un modo per sanare la sua scissione emotiva, ma, forse, la ribellione, la sofferenza e la follia non hanno modo di essere arginate nel loro processo trasmissivo e dilagante e il seme del tragico continuerà ad infervorare a meno che non si attui l’evento azzerante dal sapore di sangue condiviso e così, infatti, la tragedia avrà fine.
Insomma, al funerale di Ofelia riappare Amleto e si batte a suon di spade con Laerte tra gli specchi appesi (elementi simbolici che ritornano) e non si capisce se si assiste a una lotta tra carne e carne o tra due protagonisti di un videogame. Ormai ogni cosa è allo stremo e dunque alla sua massima strizzatura: sta per avvenire l’atto ultimo, catartico e purificatorio, quello della morte generale, una morte che poi, a detta di Orazio, sarà narrata alla gente dai sopravvissuti. Le inclinazioni create dall’impalcatura mobile si muovono di pari passo con gli andamenti labili dei disegni mentali dei personaggi, sono la ripida discesa e salita dei moti dell’anima, dei sensi di colpa: ricorrono, infatti, quando Amleto parla con Ofelia, mandata da suo padre e dal re a confonderlo e ricorrono quando Laerte viene spinto dal re a uccidere Amleto, in virtù di una missiva che dichiara il suo imminente rientro dall’Inghilterra e donano inoltre dinamismo fisico e, direi, anche atletico alla recitazione.
Una tragedia quindi, quella di Corsetti, dall’Amleto di Shakespeare nella traduzione di Cesare Garboli, mista a commedia e dalle vesti contemporanee dove tragico e ironico convivono a segno di una psicologia umana dimidiata. Un lavoro interessante, soprattutto in alcune trovate sceniche, come la relazione tra la scenografia mobile e i corpi, e innovativo nella scelta estetico-stilistica dei personaggi, soprattutto nella connotazione originale di Amleto, e che dà anche adito a varie riflessioni post-visione, ma probabilmente non uno spettacolo memorabile.



 


Amleto
di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Fausto Cabra, Francesco Sferrazza Papa, Giovanni Prosperi, Dario Caccuri, Michelangelo Dalisi, Sara Putignano, Francesco Bolo Rossini, Mimosa Campironi, Diego Giangrasso, Adriano Exacoustos, Francesca Florio, Iacopo Nestori
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Camilla Piccioni
musiche e vocal coaching Massimo Sigillò Massara
movimenti Marco Angelilli
assistente alla regia Tommaso Capodanno
assistente scenografa Alessandra Solimene
stagista di drammaturgia Emilia Agnesa
foto di scena Claudia Pajewski
produzione Teatro di Roma-Teatro Nazionale
Roma, Teatro Argentina, 27 novembre 2021
in scena dal 17 novembre al 9 dicembre 2021

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