“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 26 April 2019 00:00

Complottismo all’italiana nel cinema di Francesco Rosi

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Nel 2017 il Dipartimento di Culture e Civiltà dell’Università di Verona ha promosso il convengo Francesco Rosi Tra cinema e teatro; gli atti di quelle giornate di studio sono stati da poco pubblicati con il titolo Francesco Rosi. Il cinema e oltre (Mimesis edizioni, 2019) in un volume tripartito in sezioni dedicate rispettivamente alle riflessioni sul cinema del regista, all’analisi di alcuni film ed alle esperienze teatrali che, seppure minoritarie, non sono mancate.

Nonostante l’attività teatrale del regista si riduca a sole quattro messe in scena – In memoria di una signora amica di Giuseppe Patroni Griffi, nei primi anni Sessanta, e la trilogia eduardiana, interpretata da Luca De Filippo, composta da Napoli milionaria, Le voci di dentro e Filumena Marturano, negli anni Duemila – è proprio sulle tavole del palcoscenico che il regista realizza le sue prime esperienze nel mondo dello spettacolo ed è lì che, probabilmente, impara a lavorare sugli attori.
Gli atti del convegno pubblicati nel libro approfondiscono la produzione del regista napoletano nelle sue tante sfaccettature grazie ai contributi di Giorgio Tinazzi, Giaime Alonge, Anton Giulio Mancino, Denis Brotto, Alberto Scandola, Christian Uva, Maria Procino, Paola Zeni, Fabio Pezzetti Tonion, Denis Lotti, Stefania Parigi, Marco Dalla Gassa, Alessandro Faccioli, Vincenzo Borghetti, Simona Brunetti e Anna Barsotti, che presenta anche un’intervista a Carolina Rosi, figlia del regista.
Come scrivono Alberto Scandola e Nicola Pasqualicchio, curatori del volume così come del convegno veronese, la poetica di Rosi, al di là di quell’etichetta che lo vuole erede della tradizione neorealista nazionale, “rinvia, tutto sommato, a una Storia sola: quella di un Paese, l’Italia del secondo dopoguerra, segnato da crimini, misfatti e misteri alla cui decifrazione Francesco Rosi ha sempre cercato di contribuire con le armi dell’affabulazione e, soprattutto, della riflessione”.
Prenderemo qui in esame l’interessante intervento di Christian Uva che affronta i film Cadaveri eccellenti (1976) – tratto dal romanzo Il contesto (1971) di Leonardo Sciascia – e Tre fratelli (1981) – alla cui sceneggiatura, insieme al regista, lavora Tonino Guerra –, opere in cui la dimensione del potere e quella di chi vi si oppone, pur affrontate con toni e registri diversi, si confrontano con la specificità dell’Italia degli anni Settanta e, più in generale, con la tradizione politico-culturale nazionale.
La prima pellicola, su cui lo studioso indugia maggiormente, appartiene a quell’immaginario di metà anni Settanta che vuole il Paese in balia “di un potere ferale e inconoscibile”, in linea con “quell’immaginario complottista” diffuso nell’Italia dell’epoca. La seconda opera sviluppa invece una riflessione sulla lotta armata rapportandola con la scomparsa della società contadina e, con essa, dei padri.
Mentre nella “trilogia del potere” – Salvatore Giuliano (1962), Il caso Mattei (1972) e Lucky Luciano (1973) – vengono indagati i rapporti tra personaggi, esplicitati sin dal titolo, e lo scenario storico-politico in cui si trovano a vivere, in Cadaveri eccellenti il cinema di Rosi sembra avvicinarsi a quella costruzione metaforica a cui ricorre Elio Petri in Todo modo (1976), vista come l’unica strada percorribile per affrontare la realtà nella sua inafferrabile complessità. 
Secondo Uva è la comune derivazione sciasciana “a marcare l’orientamento di queste due opere-apologo sul tema della violenza del potere in cui domina una visione del mondo complottista" in cui al comune cittadino non è dato di sapere e comprendere ciò che una sorta di "entità aliena o addirittura sovrumana” ha deciso.
Un po’ come avviene in Omero, che vuole gli accadimenti sul suolo troiano derivare dalle cospirazioni tramate nell’alto dell’Olimpo, “sopra le teste” dei comuni mortali, anche l’idea della cospirazione, sostiene lo studioso, si fonda su un doppio livello: quello inafferrabile che determina gli accadimenti e quello della gente comune ridotta all’impotenza ed all’incapacità di comprendere fino in fondo le trame di cui finiscono in balia.
Gianni Canova, riferendosi alle modalità con cui il cinema italiano ha storicamente messo in scena il potere, all’interno del libro Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano, Vol. II, Mimesis edizioni, 2015), segnala come i tanti cosiddetti “misteri irrisolti” che hanno segnato la storia italiana, abbiano contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che “dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di ‘dietrologia’ ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un ‘burattinaio’ non identificabile [...] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei ‘misteri’ irrisolti”. Secondo Canova la teoria del complotto si è certamente edificata attorno alle numerose pagine oscure di cui è piena la storia nazionale ma “l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori [...] tanto la ricognizione sul passato [...] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un ‘sentimento’ del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare”.
Secondo Uva, in Cadaveri eccellenti – film che palesa sin dalle prime scene, ambientate nella cripta dei Cappuccini, la presenza di questi diversi livelli attraverso una messa in scena del potere che lo dota di un’aura mitologico-religiosa – emergerebbe proprio questa italianissima idea del potere coincidente con un burattinaio non identificabile e persino chi vi si dovrebbe opporre risulterebbe spesso colluso, se non coincidente, con il potere stesso.
L’idea che dietro ad ogni fatto di cronaca si nascondano le trame oscure del fantasmatico burattinaio, contribuisce a creare quella convinzione diffusa nel Paese e nel cinema dell’epoca che nessuna verità sia possibile, in quanto tutto appare indecifrabile e inaccessibile all’opinione pubblica. Intreccio narrativo e complotto politico, ricorda Uva, “nella tradizione culturale italiana risultano da sempre sovrapponibili, prestandosi appunto a essere considerati attraverso metafore di volta in volta letterarie, cinematografiche o teatrali”.
“Qual è dunque il modo, tutto italiano, di mettere in (retro)scena il potere, di evocarlo in absentia, di conferirgli una forma indefinita? – si chiede lo studioso – Quanto al Rosi di Cadaveri eccellenti è certamente quello che, impossibilitato a improntarsi sui canoni realistici o naturalistici caratterizzanti la precedente produzione del regista napoletano, tende a ‘forzare i limiti del linguaggio, inventare di volta in volta soluzioni linguistiche, formali ed espressive’. Ma soprattutto è un modo che, come ha sottolineato ancora Canova, preferisce ‘mettere in scena il potere prima di tutto attraverso i luoghi in cui esso si manifesta’, come dimostra la corposa produzione di ‘film italiani in cui l’assenza di un potere visibile è compensata dalla presenza surrogatoria delle architetture’”.
In Cadaveri eccellenti, sottolinea Uva, la metafora del “palazzo” si palesa concretamente sia nella dimora barocca e perturbante in cui vive chi viene inizialmente incriminato dei delitti, che soprattutto negli edifici romani in cui risiede il potere politico-economico. Lo stesso Pier Paolo Pasolini, sulle pagine del Corriere della sera di quegli anni, nel parlare dello spazio del potere, del tutto inaccessibile ai comuni cittadini, ricorda come persino coloro che lo descrivono, dovendo farlo inevitabilmente dall’interno, si muovano, al pari dei potenti, “come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari”. Esattamente, evidenzia Uva, alla maniera di quanti percorrono dall’inizio alla fine il film di Rosi.
Lo scenario italiano di Tre fratelli, film realizzato in apertura degli anni Ottanta, per certi versi non cambia: ancora una volta si palesa come nella storia nazionale il rapporto tra istituzioni e popolo sia del tutto assente. Pur in maniera diversa rispetto a Cadaveri eccellenti, anche in questo film viene messo in evidenza lo spaesamento che si prova di fronte ad un’attualità imperscrutabile. In questo caso i guai derivano dall’impatto industriale, dalle privazioni sociali e dal terrorismo, “questioni incarnate proprio dai tre fratelli che danno il titolo al film e che rappresentano altrettante aree geografiche di un’Italia scissa e non ricomponibile: la Roma ‘cuore dello Stato’ di Raffaele (il giudice), la Napoli di Rocco (maestro in un riformatorio), ‘luogo di degrado e filantropica speranza’ e la Torino del ‘FiatNam’, per dirla con Ettore Scola, di Nicola (l’operaio), incarnazione di un contropotere che si espleta nel ‘rifiuto del lavoro’ all’interno della fabbrica, ma che può degenerare in forme di violenza ben più estreme. Anche il fenomeno del terrorismo si proietta quindi su un tratto tipico della ‘questione italiana’ (non solo di quella meridionale): il confronto-scontro tra modernità e arretratezza che Rosi aveva già affrontato nel precedente Cristo si è fermato a Eboli (1979)”.
In Tre fratelli serpeggia la nostalgia per un mondo che non c’è più, per un mondo contadino che nella sua genuinità viene presentato come “un contraltare della violenza dell’Italia degli anni di piombo”. Qua l’anziano padre “si fa portatore di una dimensione che non sembra intaccata dal corso della Storia perché corrisponde all’istanza simbolica del mito [...]. Questo contrasto tra i ‘doni mitici dell’arretratezza’ tipici [...] della ‘specificità italiana’, e la violenza degli eventi che ancora sconvolgevano l’Italia alle soglie degli anni ’80, ci riporta alla rievocazione, proposta successivamente dallo stesso Rosi nella sua conversazione con Giuseppe Tornatore, del periodo delle riprese del Cristo. Il film, ricorda il regista, fu girato in un momento storico drammatico, durante i giorni del sequestro e della prigionia di Aldo Moro [...]. In Tre fratelli, grazie al persistente ricorso a una dimensione fortemente soggettiva, memoriale e onirica, si evidenzia a maggior ragione tale contrasto tra il presente e il passato, inteso, quest’ultimo, come elegiaco recupero di uno spazio-tempo preservato dai tanti cadaveri, più o meno eccellenti, che potere e contropotere avevano lasciato sul terreno nell’Italia di quegli anni...”.

 




Alberto Scandola e Nicola Pasqualicchio (a cura di)
Francesco Rosi. Il cinema e oltre

Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2019

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