“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 23 December 2018 00:00

Debolezze e punti di forza del film sui Queen

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Se l’inizio della pellicola promette un forte allineamento con l’atmosfera che di questo importante pezzo di storia della musica e della società si intende restituire, e specialmente con la personalità di Freddie Mercury, fra le più carismatiche dell’era moderna, il suo proseguimento sembra scandito da uno sviluppo in più di un’occasione poco convincente. La base di partenza è una buona idea di narrazione, la quale prende in esame esclusivamente l’arco temporale che va dal 1970, anno in cui il giovane Farrokh Bulsara entra a far parte della band che si esibiva all’epoca con il nome di Smile, anche se in realtà Mercury conosceva già May e Taylor e decisero insieme di formare il nuovo gruppo, sino al celeberrimo Live Aid del 1985, che consacrò definitivamente i Queen ed il loro frontman, affidandone la leggenda alla storia.

Il sostanziale coinvolgimento nel racconto di quei primi, fondamentali passi che avrebbero portato all’ascesa dell’astro musicale, è in parte minato da una traccia espressiva che calca troppo sulla farsa: quasi da subito lo spettatore non è guidato nella successione dei fatti da una vicenda che cresce e si costruisce partendo dalla dimensione privata dei protagonisti, ma sente di avere già davanti agli occhi la versione bella e pronta di un’ammiccante rappresentazione cinematografica di quelle individualità. Una delle cause è da cercarsi probabilmente in alcune scelte di sceneggiatura, e sul focus adottato per il taglio dei dialoghi e dei punti di vista, talvolta stereotipato ed eccedente nella facilità della caratterizzazione. I comportamenti e l’immagine di quegli studenti in procinto di dare vita ad uno dei fenomeni musicali di maggior successo di sempre, appaiono infatti sin troppo aderenti a quella raffigurazione di se stessi che soltanto in un secondo momento, con la crescita artistica ed al culmine della loro carriera, i membri dei Queen avrebbero completamente maturato. Nessuna colpa da tributarsi alle diverse prove attoriali, ognuna delle quali ben calibrata, e su tutte alla performance di Rami Malek, che veste i panni di Mercury con una passionalità vicina all’abnegazione, raggiungendo prodigiose vette di intensità nell’interpretare, attraverso trepidanti capacità espressive, i suoi ripetuti momenti di fragilità, insieme all’autentica e profonda risposta emotiva che l’artista riusciva ad attivare in sé e negli altri, quando creava tramite la propria voce e le proprie parole. 
Se il rapporto con il nucleo familiare d’appartenenza non è abbondantemente indagato per via dell’assenza di retroscena sull’infanzia e sull’adolescenza di Farrokh, divise tra Zanzibar ed India sino al trasferimento in Inghilterra all’età di diciotto anni, e la questione del difficile legame dell’ex Bulsara con le proprie origini parsi resta latente, la recitazione di Malek inquadra sentimentalmente, con disinvoltura, i diversi e peculiari tipi di relazione con le persone che hanno fatto parte della sua vita, compresa l’adorata Mary Austin, prima fidanzata ufficiale al quale egli sarebbe rimasto sempre profondamente legato.
L’attore riesce anche a compensare con l’intima introspezione del suo personaggio, relativamente alle possibilità lasciate dal principale tracciato degli autori, alcune grossolanità da attribuirsi alla scrittura del film, nei momenti che si soffermano in modo forzato su quei presunti e scontati capricci da star che rischierebbero di deformare l’interpretazione della figura del cantante portandola sino ad un livello grottesco (come nella scena dello scontro con il personaggio fittizio di Ray Foster, vagamente ispirato al capo della EMI Roy Featherstone il quale, a differenza dell’uomo nel film, avrebbe comunque continuato ad essere un sostenitore della band nonostante il rifiuto di pubblicare il singolo Bohemian Rhapsody). Una figura, quella del celeberrimo protagonista, che specie nei passaggi in cui viene aperto il varco sulla prorompente scoperta dell’omosessualità e del suo eccentrico modo di viverla, la pellicola tende a incatenare ad una visione a tratti eccessivamente semplificata, quasi retorica. Ma il riscatto del leader dagli errori commessi nei confronti delle persone amate e degli altri componenti della band, considerati come parte integrante della famiglia, insieme alla tragica scoperta della malattia e alla sua rivelazione agli amici, pur essendo questi momenti sfalsati rispetto alla reale scansione temporale, sono affrontati in alcune scene con una fine sensibilità di cui si colorano istanti semplici, ma veritieri e commoventi, come nello scambio di una sola battuta con uno sconosciuto ragazzo, anch’egli affetto dall’AIDS.
Ben curata la parte musicale che si intreccia alla trama in diverse fasi, dedicando un tempo giustamente lungo alle scene dei concerti o di incisione di pezzi rappresentativi, come per l’appunto Bohemian Rhapsody, e mettendo in risalto la straordinaria capacità di Freddie e dei Queen di interagire in maniera immediata, coinvolgente e spettacolare con il proprio pubblico come nessuno mai, nemmeno fra i più grandi, aveva saputo fare. Una caratteristica, quest’ultima, esaminata fra i punti nodali del successo planetario di una band eccezionalmente e trasversalmente comunicativa. Il dovuto e limpido tributo al frontman di quella perfetta formazione, unisce l’approfondimento dell’esuberanza creativa e sperimentatrice catalizzata da quest’ultimo con quella ricerca di una risposta viscerale, spontanea e di grande impatto da parte degli ascoltatori e spettatori della loro musica. Nelle sue parti migliori il film mostra con sicurezza il crearsi di questo nuovo ponte, attraverso la poderosa mediazione dell’indimenticabile voce di Freddie e della sua interpretazione, con l’emergere dell’universalità della vocazione artistica dei Queen e dell’indiscutibile importanza del rapporto di complicità umana e creativa instauratosi fra Brian May, Roger Taylor, John Deacon ed il loro impagabile solista, incalzante e solida fucina delle idee più vincenti del gruppo e dell’evoluzione di queste ultime, in un lasso di tempo produttivo non tanto esteso ma icastico.
Al di là di certe considerazioni è chiaro che, anche senza una lavorazione lunga e sofferta quale è stata quella affidata al regista Bryan Singer, molto difficilmente il film avrebbe potuto raggiungere un risultato eccelso, in quanto sarebbe stato impossibile rispecchiare adeguatamente la brillante e al contempo enigmatica complessità di un temperamento grandioso, contraddittorio e unico come quello di colui che qui ci si è prefissati di ritrarre. Senza voler giustificare limiti o ingenuità, va però riconosciuto che di certo il proposito non sarà consistito nell’esaurire l’ostico argomento in un lungometraggio simile, quanto piuttosto nella rievocazione di alcune particolari sensazioni, osservate adesso da una più consistente distanza storica.
Probabilmente di Bohemian Rhapsody resterà da apprezzare sopra ogni cosa il non facile e coraggioso sforzo dell’aver tentato di rendere onore all’umanità ed all’incontrastato mito di quel ragazzo nato a Zanzibar, il quale insieme ai Queen conquistò il mondo grazie alla propria luminosa scia. La storia di quel giovane uomo e dei suoi tre compagni di avventure che non poteva essere raccontata se non attraverso una visione popolare e “larga” come la comunità globale a cui essi intendevano rivolgersi, senza settori o confini (tralasciando, in questa sede, di parlare dei soliti e più pratici intenti commerciali dell’industria cinematografica). Un’opera che, nel quadro generale, avrebbe potuto impreziosirsi ed innalzarsi con qualche sottile accorgimento ed una più accurata riflessione, ma che pure regala alcune belle e legittime emozioni e, se non altro, ha il pregio di dimostrare quanto, oggi più di prima, si senta la necessità di trasmettere la grandezza rara di quegli artisti la cui memoria va oltre la notevole ammirazione di tanti, sfociando nella netta ed incredibile impressione che sì, in effetti si sia proprio arrivati a voler loro del bene.

 

 

 

 

Bohemian Rhapsody
regia Bryan Singer, Dexter Fletcher (non accreditato)
soggetto Peter Morgan, Anthony McCarten
sceneggiatura Anthony McCarten
con Rami Malek, Lucy Boynton, Gwilym Lee, Ben Hardy, Joseph Mazzello, Aidan Gillen, Tom Hollander, Allen Leech, Mike Meyers, Aaron McCusker
fotografia Newton Thomas Sigel
musiche John Ottman
produzione GK Films, New Regency Pictures, Queen Films Ltd., TriBeCa Productions
distribuzione 20th Century Fox
paese USA, Regno Unito
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2018
durata 134 min.

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