“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 26 November 2018 00:00

La malattia del non-amore

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Prima e intorno


Gli attori sono già sul palco: luci accese e brusio del pubblico sottostante.
Gli attori sono dentro una scatola, che è una camera, presumibilmente d’albergo. Tecnici della luce e del suono si muovono sulla scena, veloci, sicuri, coordinati. Sono vestiti di nero: hanno marsupi, cuffie, giraffe, cineprese. In questo mélange tra teatro e cinema, che sospende in qualche modo la comprensione, perché la suddivide in più piani e in diverse percezioni, ha inizio lo spettacolo La maladie de la mort, tratto dall’omonima opera di Marguerite Duras.

Il mélange è anche linguistico: le voci dei due protagonisti, una donna e un uomo, sono francesi; la voce narrante è italiana, della convincente Jasmine Trinca. I due corpi sono nudi: prima, e più spesso, quello di lei, poi, e talvolta, quello di lui. Eppure, invece, il mélange tra i corpi, anche quando, ripresi dalle telecamere – due, che si spostano rapide e precisissime su di lei, su di lui, sul letto, sul corridoio, nella camera, nel bagno – vengono mostrati a fare sesso, non avviene. Mai.
Inserisco qui una breve e sintetica nota critica: l’originalità della messa in scena è indubbia, l’interpretazione e l’adattamento del testo ottimi, la bravura di regista, direttori, attori e tecnici tutti è notevole.

Durante e fuori

I due non si conoscono e si vedono soltanto di notte, in una camera effettivamente d’hotel. Lei viene pagata per le sue prestazioni. Una sorta di geisha occidentale. Il patto è che lei non parli e che faccia tutto ciò che lui le ordina. Prevalentemente, lui la guarda dormire, come se questo gesto potesse trasmettere il sonno mancante a lui; come se questa osservazione potesse insegnargli a legarsi, a provare emozioni. E così, vanno avanti notti e notti.
Lei: “Cosa volete?”
Lui: “Parlare... Provare ad amare”
Lei: “Perché volete provare ad amare?”
Lui: “Per dormire”
Quest’uomo ha sempre voluto essere libero di non amare, tanto che non sa cosa significhi, amare. Tanto che non riesce ad imparare a farlo. Ma si può imparare l’amore? Possibile ci siano persone che non sappiano dirlo, darlo, farlo, ovvero, in primis, provarlo? Possibile. Nei tre mondi, teatrale, cinematografico, letterario, e nella realtà. Può vivere il mondo senza amore? Può vivere una persona senza amore? Parrebbe di sì, ma è una mera sopravvivenza. Che per alcuni può essere consolatoria e rassicurante, per altri deleteria, quando la consapevolezza arriva.
L’uomo del racconto è come fosse già morto: non riesce neanche a vedere la bellezza, il corpo giovane e attraente della donna. Le chiede a un certo punto se è bella: non riconoscerebbe nessuno, alla luce del giorno. Eppure, è proprio nel mondo, nel coraggio della visibilità e del mettersi in gioco che l’amore solo può vivere, questo sembra dirci la Duras. La notte pare essere il luogo dell’intimità più profonda, ma anche l’alibi perfetto della fuga, della sottrazione, il luogo perfetto del non essere. Lui non cerca parole, le intima anzi di tacere, di ubbidirgli, come a rivendicare un vitalismo che non ha e che, nel suo immaginario distaccato dai sentimenti, può avere soltanto la forma patriarcale che – ipotizzo – gli è stata in qualche modo trasmessa – dell’asservimento della donna. Un’illusione di potere che sostituisce il vuoto del silenzio di una vita priva di qualunque autenticità e slancio. Lei, in realtà, però, potrebbe dominarlo, essendo una persona che vive, soffre, sceglie quello che fa – anche se non si capisce davvero se vada con lui per scelta o per necessità materiale, come si scoprirà nell’ultima scena/fotogramma.
Il tema, caro alla Duras, dei contorti, passionali, violenti rapporti tra uomo e donna è il filo conduttore di quest’opera, che la mirabile regia di Katie Mitchell ha reso un “live film”. La giovane donna incarna la forza invincibile della debolezza. Lei sembra succube, obbedisce, ma ha dentro sé la vita, e dei motivi per vivere, nonostante, come si vedrà da una scena – una tra le diverse, di lei bambina, frapposte tra un incontro e l’altro – lei scopra, da piccola, il corpo del padre morto, uccisosi, impiccato. Il suo distacco dalla vita, la sua indifferenza al malessere dell’uomo, la sua freddezza nel concedersi ogni notte a lui, all’improvviso trovano un senso lontano nel tempo e profondissimo nell’anima, ma lei non è sconfitta completamente, nonostante il dolore, in apparenza artico, che porta dentro.


Infine e dentro

Il dolore atroce è immobile, fermo come un fotogramma, spalancato e perduto come occhi nel buio. Il sentimento potrebbe tornare soltanto da una frattura improvvisa nella logica dell’universo, da un errore.
Molti quesiti esistenziali si pongono e ci interrogano, nell’unica finestra illuminata di una camera di un albergo che è solitaria costruzione attaccata al mare, metafora di isolamento e disadattamento, accarezzata e talora frustata dalle sue onde, metafora di un sentimento che lambisce e poi arretra e così facendo, ad infinitum, perisce. “Avete potuto provare l’amore nel solo modo possibile per voi: perdendolo, prima che iniziasse”, le dice, infine. Lui resta solo, nello strazio della notte, lei sorride dinanzi al mare, di giorno, con il figlio che le corre incontro e l’abbraccia.

 



La Maladie de la mort
libero adattamento del testo di
Marguerite Duras
adattamento Alice Birch
regia Katie Mitchell
con Laetitia Dosch, Nick Fletcher, Jasmine Trinca
realizzazione video Grant Gee
scene e costumi Alex Eales
musiche Paul Clark
suono Donato Wharton
video Ingi Bekk
luci Anthony Doran
regista assistente Bérénice Collet
direttore tecnico John Carroll
vide direttore di scena Lisa Hurst
programmazione video / operatore Caitlyn Russell
operatore telecamera Nadja Krüger, Sebastian Pircher
trouble shooter Matthew Evans
programmazione suono / operatore Harry Johnson
boom operator Joshua Trepte
programmatore luci / operatore Aliénor Lebert
assistente direttore di scena Elodie Huré
direttore di scena Marinette Jullien
foto di scena Stephen Cummiskey
lingua italiano, francese con sovratitoli in italiano
durata 1h 20'
produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord
coproduttori associati Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Théâtre de la Ville-Paris, Le Théâtre de Liège
coproduzione MC2: Grenoble, Edinburgh International Festival, Barbican/London, Stadsschouwburg Amsterdam, Teatro di Roma − Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino − Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Teatro Metastasio − Prato, TANDEM scène nationale
in collaborazione con Mayhem
Bologna, Arena del Sole, 16 novembre 2018
in scena dal 13 al 16 novembre 2018

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