“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 26 April 2018 00:00

Roma e il cinema dell'immediato dopoguerra

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Un recente volume di Lorenzo Marmo, Roma e il cinema del dopoguerra. Neorealismo, melodramma, noir (Bulzoni Editore, 2018), indaga le modalità con cui il grande schermo ha dato immagine alla città di Roma in un momento in cui, negli anni dell’immediato dopoguerra, il Paese è alle prese con la difficile, quanto necessaria, ridefinizione dello spazio collettivo e dell’identità nazionale dopo essere finalmente uscito dalla dittatura nazifascista.

L’ansia di dare immagine al paesaggio in questo periodo sembra derivare dalla necessità di fare i conti con i traumi soggettivi, collettivi e urbanistici legati alla dittatura e alla guerra. Si tratta, pertanto, di un paesaggio legato alla problematicità che contraddistingue il periodo.
Pur testimoniando la dimensione del trauma, il cinema italiano del dopoguerra riesce, e in ciò è ravvisabile uno dei suoi grandi meriti, a proporre al pubblico un “nuovo patto sensoriale” contraddistinto dal “piacere visivo”. Scartata la possibilità di dare a vedere l’Urbe attraverso la sua monumentalità in quanto tale modalità risentirebbe troppo di quella narrazione enfatica e retorica utilizzata dal regime ormai messo alle porte, prende piede l’idea di realizzare riprese in esterni reali capaci di garantire una funzione veridittiva (costruzione di un rapporto di fiducia con il pubblico), una simbolica (emotivo-identificativa) e una estetica (affettivo-sensoriale).
Il voluminoso saggio di Marmo si articola in quattro capitoli. Nel primo viene presa in esame la pellicola Giorni di gloria (1945) di Mario Serandrei, Luchino Visconti, Giuseppe De Santis e Marcello Pagliero, opera documentaria incentrata sul portato testimoniale del dispositivo cinematografico qui intento a raccontare eventi molto vicini nel tempo.
Nel secondo capitolo l’autore problematizza la categoria del neorealismo ripercorrendo il dibattito sviluppatosi su di esso nel corso dei decenni e, in linea con le finalità del saggio, si sofferma sul suo proporsi come “riconnessone narrativa con un tessuto urbano lacerato”.
Nel terzo capitolo è la categoria del melodramma a essere affrontata in quanto individuata come “la più adatta a rendere conto di una parte importante delle pratiche di messa in scena dei film neorealisti, ivi compreso il loro uso del paesaggio”. L’immaginazione melodrammatica, rintracciabile nello stesso neorealismo, si dimostra infatti una modalità strutturante del sentimento postbellico. Una parte importante dell’analisi proposta dal capitolo ruota attorno al film Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, indicato come esempio di “melodramma dell’oggetto perduto”. A essere messo in scena è, oltre allo smarrimento della bicicletta, “lo smarrimento relativo al rapporto tra soggetto e spazio urbano. Smarrimento che però il film – e la temperie neorealista in generale – vogliono recuperare tramite il proprio gesto di adesione alla realtà e l’enfasi sulla possibilità di filmarla nella sua concretezza materica”. Secondo lo studioso in tale pellicola è possibile individuare “una pratica melodrammatica che, facendosi messa in scena dell’ansia, compie un parziale avvicinamento a registro del noir”.
Nel quarto e ultimo capitolo Marmo evidenzia quanto l’immaginario del noir, sia francese che americano, sia presente nel cinema italiano del dopoguerra e, in particolare, si sofferma sul suo ruolo nella prima fase del cinema di Pietro Germi in relazione alla funzione svolta dallo spazio urbano romano nella sua poetica. Ad essere analizzati sono in particolare i film Il testimone (1946), Gioventù perduta (1947) e La città si difende (1951).
Nel cinema dell’immediato dopoguerra le riprese realizzate in esterni reali contribuiscono a mobilitare il coinvolgimento, il desiderio e l’identificazione degli spettatori messi di fronte alle borgate, al caotico centro cittadino da cui emergono i monumenti antichi, in un continuo alternarsi di macerie e nuovi palazzi in costruzione. Poi, con l’andare del tempo, i traumi impressi sul tessuto urbano di Roma dalla dittatura nazifascista si cicatrizzano e con gli anni Cinquanta si apre la stagione in cui spetta alla commedia continuare “la mappatura della società urbana e dei suoi mutamenti inaugurata nel dopoguerra” ma questa, pur non mancando di mostrare le ansie e i problemi del Paese, pian piano si allontana, inevitabilmente, dalle questioni legate alla dittatura e alla guerra per affrontare gli effetti sul Paese della modernizzazione che avanza. Allontanandosi dai tragici eventi bellici, anche la “spazializzazione dell’ansia”, pur senza scomparire del tutto, si affievolisce e inizia un processo di progressiva riconciliazione con lo spazio urbano come avviene, ad esempio, in film come Le ragazze di piazza di Spagna (1952) di Luciano Emmer, opera in cui però il regista non nega “la potenziale problematicità della scena sociale italiana del momento”.



 

Lorenzo Marmo
Roma e il cinema del dopoguerra. Neorealismo, melodramma, noir

Bulzoni Editore, Roma, 2018
pp. 228

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