“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 06 February 2018 00:00

“Loveless”: il mondo è senza scampo

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Il film Loveless − Premio (meritatissimo) della Giuria a Cannes nel 2017 − è ambientato nella Russia di oggi e racconta una storia in apparenza comune. Non solo in apparenza, in realtà, perché davvero la storia di due persone sposate che non si amano, con un figlio (solo uno) e che condizionano la sua serenità a causa del loro non-amore è molto diffusa. Ma è anche una storia non tipicamente russa, bensì molto occidentale, perché la famiglia in questione è benestante, per quanto, nonostante l’agiatezza, lo stabile in cui vive è un palazzone che riporta immediatamente l’immaginario dello spettatore al recente passato sovietico.

Žhenja e Boris sono in procinto di separarsi. Non solo tra loro non vi è (più) amore, ma vi sono acredine e rancore. A farne le spese è il figlioletto dodicenne, Alëša, completamente ignorato dai due genitori, alle prese con l’odio da scambiarsi e con gli amanti da frequentare. Boris deve nascondere la sua relazione a tutti i costi, perché il suo Direttore è un fanatico dell’ultra-ortodossia e assume (e mantiene) nella propria azienda soltanto persone sposate. Chi non lo fosse più, verrebbe licenziato in tronco. Tutti, infatti, esibiscono al dito la fede. L’uomo è dunque particolarmente angosciato perché non sa, nei fatti, come affrontare il divorzio rispetto a questa mentalità bigotta e retriva − che mette i brividi. Nessuno dei due genitori, inoltre, vuole tenere con sé il bambino il quale, di notte, li sente litigare e ode il disinteresse e la mancanza di affetto e premura nei suoi confronti. L’indomani mattina, così, scompare. Non lo si vedrà più apparire nella pellicola; non sarà mai trovato. Addirittura, solo dopo due giorni la sua sparizione viene notata dalla madre, che aveva trascorso la notte fuori dal suo amante. Agitata, ella chiama il marito, in pausa pranzo al lavoro, il quale minimizza e di fatto ignora l’allarme della moglie, dicendole che il ragazzino senz’altro tornerà. Invece no. Iniziano allora le ricerche, da parte di un gruppo di volontari. Sì, perché la polizia dice chiaramente ai genitori che a Mosca spariscono talmente tanti minori ogni giorno che loro non riescono a seguire le loro tracce: non hanno abbastanza risorse. I volontari si danno da fare, ma l’impresa è ardua. Alëša si è come volatilizzato.
Nel suo non apparire in alcun luogo, in alcuna segnalazione, in alcuna ipotesi di altro luogo – tranne, come da suggerimento dell’unico amico, in un enorme, vecchio casolare abbandonato presso il quale si recava con lui – e in alcuna idea o suggerimento dei genitori (costoro non conoscono nulla delle sue abitudini/gusti/amicizie/orari/idee/sentimenti), si evidenzia la sua solitudine assoluta di essere umano scagliato nel mondo senza che nessuno si sia mai curato di lui. Le ricerche, come anticipato, non danno esiti. Si vedono dopo qualche anno Boris e Žhenja separati e conviventi con gli amanti di un tempo: lui, padre di un altro bambino che ignora e mette via come fosse un oggetto che gli dia fastidio (il piccolo, di un anno o due, vuole giocare con il papà, ma egli desidera solo guardare la tv – altro simbolo del “male” di “importazione” occidentale... − e lo porta in camera sua, poggiandolo senza premura nel suo box, dove il bambino resta solo ed inizia un pianto disperato); lei, immersa con il nuovo compagno in un silenzio di piombo, sempre davanti ad una televisione da quaranta pollici, che a un certo punto si allontana, muta, come lui, e, indossando una tuta con zip con la scritta Russia – in caratteri occidentali – inizia tristemente a correre su un tapis roulant fuori al balcone, mentre intorno tutto è grigio e fermo. Corre verso il nulla, Žhenja. La Russia è divenuta così dannatamente simile alla peggiore in-cultura europea del mero possesso e del conseguente spossessamento dell’Io e dei sentimenti. Questa scena finale imprime un dolore fortissimo, a dispetto della sua glaciale neutralità registica.
È un film dell’Est, infatti, Loveless, un film del gelo e della contrizione; un film fatto di poche parole e di materialistico spreco borghese; è un film senza nessuna prospettiva, nessuna via di scampo. Loveless è un film della disfatta. Vi si rappresenta una generazione, anzi due, di persone supine, sconfitte. La pellicola, e con essa i personaggi, sono intrisi di un nichilismo privo anche di espressione artistica, ovvero di possibilità di redenzione, o parziale – quanto meno – realizzazione di sé attraverso le arti, come sempre è stato nella storia dell’uomo; per restare al più recente periodo classificabile come nichilista, gli anni ’80 del secolo scorso, ci fu grande vitalità nel costume, nella musica, nelle arti; l’heavy metal, la new wave, il dark che si unì al dandismo e a un neo-romanticismo di stampo gotico ne sono un esempio. Vi erano reazioni o tentativi di dire la propria fragilità per “curarla” (non a caso, uno dei gruppi più influenti del decennio sono “The Cure”, “La cura”). Ora, invece, sembra di vedere solo un nulla che produce altro nulla.
Loveless è perciò una pellicola dolentissima, molto metaforica, anche se pienamente realista. Racconta il mondo di ieri e quello di oggi, la loro crasi che segue però ad uno scontro frontale (mortale?) e la loro discendente continuità verso abissi del senso (inteso come buon senso, inteso come significato, inteso come sentire e sentimento), nel “macro”, ovvero nel disvelarsi e compiersi dei fenomeni socio-politici, e nel “micro”, le relazioni personali, intime, il divenire cioè dell’essere con gli altri. Zvyagintsev si insinua nelle loro fratture, le amplifica, le rende ultraterrene, cioè immutabili, perché eterne. Il suo film è senz’appello, non lascia scampo: certifica l’impossibilità della costruzione, dell’altruismo dei sentimenti, dell’attenzione, dell’impegno e della dedizione. Mette in discussione tutti i nostri (spesso solo apparenti) valori e le nostre certezze. È un film spietato e pieno d’inespresso dolore. È un pugno nello stomaco, Loveless: terribilmente magnifico.

 




Loveless
regia Andrej Zvyagintsev
sceneggiatura Oleg Negin, Andrej Zvyagintsev
con Maryana Spivak, Alexei Rozin, Matvey Novirok, Andris Keišs, Marina Vasil'eva, Aleksej Fateev
fotografia Michail Kričman
musiche Evgenij Gal'perine, Saša Galperin
montaggio Anna Mass
produzione Arte France Cinéma, Why Not Productions
distribuzione
Academy Two
paese Russia, Francia, Belgio, Germania
lingua originale russo
colore a colori
anno 2017
durata 128 min.

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