“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 10 April 2013 04:50

Possiamo sempre fare qualcosa

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“Possiamo sempre fare qualcosa”, è questa la massima che secondo Giovanni Falcone andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto. Con la sua pièce sull’uccisione del magistrato Paolo Borsellino, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio a Palermo, la regista Emanuela Giordano vuol proprio trasporre tale pensiero, evitando i luoghi comuni che individuano nella mafia un fenomeno socioeconomico, che non può essere represso senza un profondo cambiamento culturale.
In questo senso, come non mancava di avvertire Falcone, bisogna rinunciare a tutte quelle teorie che interpretano i fenomeni malavitosi come figli del sottosviluppo, quando, invece, sono il frutto di un’illecita spartizione delle ricchezze. L’atteggiamento sotteso a queste dinamiche è, infatti, quello della rassegnazione di chi si lascia scorrere addosso le tristi vicende dell’Italia del suo tempo, pensando che non ci sia nulla da fare. 

L’attrice Claudia Gusmano, il cui amore per il teatro è sensibilmente palpabile, riesce invece nella difficile impresa di far sentire tutti gli spettatori complici del Sistema, che solo un errore di prospettiva fa credere non sia Cosa Nostra. Siamo tutti coinvolti in quel gioco troppo grande che è la Mafia, la cui esistenza sarebbe inconcepibile senza la complicità di alcuni gruppi politici, ovvero di una parte dello Stato.
Le stragi di Falcone e Borsellino sono così inquadrate nel fenomeno della corruzione politica, che, com’è noto, si manifestò negli anni ’80 con lo scandalo della Loggia P2, (una setta massonica ben inserita nell’ambito politico, il cui fine era di condizionare le strutture portanti della democrazia per l’instaurazione in Italia di uno stato autoritario) e il cui scioglimento nel 1981 non determinò la fine della connessione tra la malavita e alcuni settori classe politica. La corruzione di quest’ultima fu anzi certificata nel 1992 da un’inchiesta della magistratura milanese denominata “Tangentopoli”, che mise in chiaro come i partiti fossero degenerati, diventando delle vere e proprie macchine di potere e di clientela, in collusione talvolta con gli ambienti malavitosi. La battaglia ingaggiata da Borsellino e Falcone si configurava, quindi, come la lotta contro una concezione della politica intesa come spartizione e lottizzazione della cosa pubblica, che non impiegò molto a diventare “Cosa” di corrotti e concussi.
In tale contesto storico, è calata la storia interpretata con grande afflato drammaturgico da Claudia Gusmano e Laura Rovatti, ovvero la storia della figlia di un killer mafioso e di una maestra che, scambiata per una giornalista, è presa in ostaggio dalla prima, per costringerla a raccontare al mondo perché e in nome di cosa è morto Paolo Borsellino. La maestra, dopo aver dimostrato la sua estraneità al mondo giornalistico, manifesta il tipico atteggiamento di chi si ritiene estraneo alle dinamiche sociali e politiche del proprio Paese, preferendo sempre e comunque defilarsi. A questo punto, forte e convincente esplode la denuncia morale della Gusmano (che interpreta la figlia del killer), che riportando le parole di un giudice, afferma che a essere temuta non deve essere la malvagità dei disonesti, ma il silenzio di chi si crede onesto e non sa, invece, di creare le condizioni necessarie alla proliferazione della criminalità organizzata. L’atto d’accusa è rivolto anche all’intero sistema scolastico che istruisce soltanto senza accrescere la consapevolezza critica di giovani, che sembrano collocarsi fuori dalla storia.
La pièce punta proprio il dito accusatore contro l’Indifferenza, suggestivamente descritta da Gramsci come "il peso morto della storia", perché opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
La maestra, al termine del commovente monologo della sua rapitrice, cui hanno misteriosamente rapito i genitori, si convince che la sua abulia è figlia di tempi nefasti in cui è mistificata la conoscenza della vita e dei problemi della società e delle persone, in cui le idee non circolano libere, ma sono sempre frutto dell’autorizzazione del partito di turno cui si deve rendere grazie. Questo "rendere grazie" anche per i riconoscimenti dovuti è il sintomo di una malattia che affligge lo Stato e che ha come diretta conseguenza l’instaurarsi nella società civile di ogni tipo di corruttela (nelle pubbliche amministrazioni, nelle università). Il fatto stesso che a distanza di anni non si sia riusciti a individuare con certezza i colpevoli della strage di Borsellino, è un fatto gravissimo, perché su quella morte pesa il sospetto degli intricati rapporti fra Stato e mafia. Tutta la pièce è giocata sulla coinvolgente contrapposizione fra opposte visioni della realtà: all’incredulità della maestra, ovvero dell’anima bella quasi sporcata dai crudi racconti di mafia e connivenze politiche ed ecclesiastiche, fa da contro altare la lucida e tagliente requisitoria della rapitrice, la cui verità è forgiata da anni di patimenti e sofferenze, propri di chi è costretto a vivere la vita nei panni della figlia di un pentito.
La conclusione è che la mafia non è un epifenomeno per cui basta chiudere gli occhi, sperando sparisca. È un fenomeno umano, ahi, troppo umano, e in quanto tale, come ci insegnava Vico, perfettamente conoscibile e quindi estirpabile.

 

 

 

Ci posso offrire qualcosa?
scritto e diretto da Emanuela Giordano
con Claudia Gusmano e Laura Rovetti
aiuto regia Giovanni Vicari
organizzazione Grazia Sgueglia
Caserta, Teatro Civico 14, 7 Aprile 2013
in scena dal 6 al 7 aprile 2013

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