“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 14 September 2017 00:00

Viaggio alle origini della videoarte

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L'editore Meltemi ha dato alle stampe nel corso del 2017 a una nuova edizione del libro Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione  di Simonetta Fadda, pubblicato per la prima volta nel 1999. Il saggio propone una dettagliata ricostruzione delle origini del video nei suoi utilizzi artistici e politici, soprattutto nell'ambito della controinformazione, dunque, come sottolinea Bruno Di Marino nella Prefazione stesa per questa nuova uscita, nei suoi usi "fuori dal sistema".

Le potenzialità offerte dal video nell'ambito della documentazione e dell’informazione vengono percepite negli anni '60 e '70 tanto negli ambienti artistici quanto in quelli dell'attivismo politico. “La ricchezza e la pluralità d’intenti del video utilizzato per finalità sociali sono testimoniate anche dai numerosi nomi che sono stati utilizzati al suo riguardo: video di movimento, video militante, video underground, video di base, televisione leggera o televisione povera (in contrapposizione alla televisione ricca, quella commerciale e broadcast, ma anche al video d’arte). In questi appellativi sono evidenti le diverse aspirazioni di chi cerca nel video il mezzo per dare una testimonianza, non mediata da esigenze sensazionalistiche, della realtà viva e quotidiana. Costruire la storia dal basso, questa l’utopia che il video sembra materializzare e a cui si deve il suo immediato successo” (pp. 145-146).
La scena statunitense e quella canadese sono le prime ad essere toccate dalla nuova tecnologia del video ed è dunque in questi due Paesi che nascono i primi collettivi video che gettano le basi di quella “particolare estetica video che verrà poi diffusa in campo artistico attraverso le installazioni a circuito chiuso degli anni Settanta e le cosiddette videosculture degli anni Ottanta” (p. 147).
La prima parte di Definizione zero è dedicata all'analisi del medium video/televisione sia dal punto di vista tecnologico che artistico, con una particolare attenzione al rapporto tra visione organica e visualità tecnologica. Nella seconda parte vengono indagati gli esordi del video sia nel mondo dell'arte che in quello dell’attivismo politico, con particolare attenzione all'intrecciarsi dei due ambiti. Vengono indagati anche gli aspetti del video legati alle dinamiche di mercato e le trasformazioni estetiche introdotte da questo nuovo medium soprattutto in rapporto alla comunicazione televisiva. L’ultima parte del volume passa in rassegna le più importanti esperienze video italiane: “Dalle collaborazioni di Luciano Giaccari con gli artisti – soprattutto della body art, della performance e di Fluxus – alla sensibilità mediale di Alberto Grifi, alle operazioni-feedback del collettivo Videobase, alla scuola di controinformazione del Laboratorio di Comunicazione Militante”. Rispetto alla prima uscita del libro, nella nuova edizione pubblicata da Meltemi sono state aggiunte note conclusive volte ad inquadrare il video e la visualità nell'era del digitale 2.0 nell'intento di verificare se è ancora possibile per l'ambito artistico intervenire sulla società di oggi come avvenne inizialmente con il video.
Nel corso della ricerca, sostiene la studiosa nella Premessa alla nuova edizione, a colpirla sono state soprattutto quattro questioni: 1) il fatto che il video venga realizzato dagli artisti prima di essere prodotto dall’industria; 2) l'uso del video come strumento di comunicazione pubblica, non di rado politica, nonostante l'industria pensasse ad un suo uso privato; 3) il forte legame tra video e pratiche artistiche incentrate sul corpo grazie soprattutto al pensiero femminista. “Il femminismo sapeva che il corpo è il campo su cui si costruiscono le identità e i ruoli sociali e ne fece uno degli obiettivi delle proprie lotte di liberazione per l’acquisizione di diritti, voce e autorità sociale della donna” (p. 18); 4) la funzione sociale emergente dalle modalità di presentazione dei video adottate negli ambienti militanti alternativi degli anni '60 e '70. “In tutti e quattro i casi, grazie al video fu possibile creare situazioni collettive capaci di sfidare lo spettatore all’intervento, all’azione diretta sull’oggetto televisore o in rapporto alla situazione televisiva, stimolandolo a entrare consapevolmente e fisicamente nel processo della trasmissione delle immagini. In altre parole, il tentativo di spezzare l’unidirezionalità del rapporto televisione/telespettatore andava di pari passo col desiderio di un’interazione con la televisione come forma di comunicazione, nel senso di una partecipazione concreta dell’utente alla produzione dell’evento televisivo” (p. 19).
Un approfondimento è dedicato da Simonetta Fadda al legame che storicamente si è dato tra corpo, femminismo e video. “In quanto mezzo autoreferenziale e narcisistico, il video è subito adottato dai bodyartisti, che lo riconoscono come il più adatto alla messinscena oltraggiosa di un teatro del sé in grado di mettere radicalmente a nudo gli interdetti che regolano il vivere sociale. Nella body art il video diviene un mezzo per esprimere le percezioni dell’individuo, per dare voce all’esperienza personale, per provocare emozioni, il che rende il medium meno tecnologico, meno televisivo, più artistico. L’utilizzo del video per la manifestazione delle pulsioni più intime dell’individuo, incredibilmente, rimette in campo proprio la nozione di arte come espressione della soggettività eroica dell’artista, facendo così schiudere le porte della fortezza museale. La rivalutazione dell’espressione del Sé, per mezzo di pratiche volte a ridefinire radicalmente lo statuto dell’opera e a sovvertire il sistema artistico-commerciale vigente come la performance, infatti, sposta nuovamente l’accento sul privato, col risultato di allontanare dal video i sospetti da cui è circondato, legati al suo rapporto col sociale, con l’impegno politico e con la critica nei confronti della gestione corrente dell’informazione" (pp. 103-104).
Fadda ricorda come la convinzione che il personale è politico che giunge ad influenzare anche le pratiche della body art, nasca dalle battaglie del movimento di liberazione della donna. “Intesa come strategia in grado di portare a galla e dar voce al rimosso su cui poggia l’esperienza della subalternità femminile, l’autocoscienza in campo video genera narrazioni che richiamano l’attenzione sul nodo ideologico e sessista in cui nella cultura occidentale resta imbrigliato lo stesso piano dell’espressione della soggettività. L’inferiorità a livello sociale ed economico della donna è collegata all’effettiva ineguaglianza da lei subita sul piano del linguaggio. All’avvio delle lotte di liberazione della donna, la valorizzazione dell’esperienza privata, soggettiva e in qualche modo incomunicabile, interviene strategicamente a restituire dignità di parola a un soggetto reso invisibile dalla Storia e non ha niente a che vedere con il feticismo relativo alla soggettività eroica dell’artista (maschio)” (pp. 104-105).
La studiosa sottolinea anche come a cavallo tra anni '60 e '70 l'uso del video da parte femminista risulti sostanzialmente differente rispetto a quello della body art. Nel caso della pratica artistica “si può ragionevolmente parlare di narcisismo del video [...], di messa in opera di una situazione psicologica in cui il corpo del performer è incapsulato nel monitor-specchio, dando luogo a una serie di investimenti libidinali attraverso cui il corpo dell’artista è riletto e ricostruito come soggetto e oggetto dello sguardo, in una sorta di feedback claustrofobico” (p. 105). Fadda cita come esempio alcune realizzazioni video di Vito Acconci attraverso le quali l'artista tenta di stabilire un nuovo tipo di relazione con il pubblico. Al contrario nei video femministi si assiste a un ribaltamento in cui il video “innesca una situazione, basata sulla riflessività, in cui la relazione tra telecamera e monitor è messa in gioco per colmare lo scarto tra la soggettività reale della donna-artista e le rappresentazioni, vigenti nel mondo esterno, della donna come corpo senz’anima e del corpo femminile come oggetto di desiderio” (p. 105). In questo caso la studiosa cita il video femminista Gottin Kôrpertemple (1971) di Friederike Pezold in cui l'autrice, nel riprendere attraverso un lento piano sequenza frammenti del proprio corpo, li trasforma in figure astratte. “L’interesse non è solo verso il dato psicologico contenuto in questa esplorazione di sé, ma nel fatto che la sua rappresentazione è contemporaneamente una rappresentazione delle contraddizioni relative alla sessualità, al genere, alla costruzione identitaria e, perciò, alle gerarchie e ai ruoli conseguenti che operano nella società contemporanea e con cui il soggetto femminile deve fare i conti, prima ancora di potersi posizionare come soggetto” (p. 106).
A distanza di quasi vent'anni dalla sua prima uscita, il libro di Simonetta Fadda, nel suo ricostruire le origini del video tra arte, comunicazione e politica, si rivela ancora oggi un valido strumento sia per approfondire la storia degli albori di questo medium che per riflettere sull'attualità, sull'era digitale dell'immagine condivisa.

 




Simonetta Fadda
Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione
prefazione di Bruno Di Marino
Meltemi editore, Milano, 2017
pp. 268

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