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Saturday, 15 April 2017 00:00

Antieroi e “rough heroes” nelle serie televisive italiane

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Diverse serie televisive contemporanee hanno riservato il centro della scena ad antieroi problematici che sembrano avere poco a che fare con gli eroi e gli antieroi tradizionali; si pensi a produzioni seriali di successo come The Sopranos (1999-2007, HBO), Boardwalk Empire (2010-2014, HBO), True Detective (2014-in produzione, HBO), Sons of Anarchy (2008-2014, Fox) o Breaking Bad (2008-2013, AMC).
Andrea Bernardelli nel saggio Cattivi seriali. Personaggi atipici nelle produzioni televisive contemporanee (Carocci editore, 2016) ha affrontato tale fenomeno passando in rassegna i principali studi, soprattutto anglosassoni, che hanno indagato tali narrazioni seriali. Dalla panoramica dell'autore emerge come secondo alcuni studiosi la presenza di tanti antieroi problematici sia da mettere in relazione alla volontà di produrre serie complesse anche se esiste una lunga tradizione di antieroi nella letteratura, nel teatro e nel cinema.

Tradizionalmente l'eroe e l'antagonista sono presentati come personaggi privi di sfumature; o sono  “buoni-buoni” o “cattivi-cattivi” (villain) ma esistono anche narrazioni in cui la distinzione è più complessa. Nella recente serialità televisiva ritroviamo tipologie di antieroi che, pur essendo cattivi, manifestano tratti di umanità, una sorta di “cattivi ibridati con la figura eroica”. La figura del villain parzialmente umanizzato, secondo Bernardelli, è di derivazione teatrale più che romanzesca. Un Tony Soprano, ad esempio, ricorda più Macbeth che non Edmond Dantés; si tratta di un cattivo capace di produrre nello spettatore qualche forma di partecipazione alle sue vicende in attesa della redenzione finale che, come da copione, può avvenire soltanto attraverso la morte tragica.
Mentre l’antieroe tradizionale, tale in quanto manca delle caratteristiche dell’eroe, è contraddistinto da debolezze tali da non apparire agli occhi del pubblico così gravi da determinare nei suoi confronti una condanna morale senza appello, nelle serie televisive contemporanee si incontra una figura di cattivo che è invece contraddistinta da difetti talmente marcati che nemmeno le sue qualità positive appaiono in grado di rendere sopportabile. Anne W. Eaton, nel suo libro Robust Immoralism (2012), definisce questa figura rough hero; si tratta di un personaggio intrinsecamente immorale, al contrario dell’antieroe che sembra esserlo solo superficialmente svelando poi qualche lato moralmente positivo. È l'emergere di una dose di bontà, già presente sotto la dura scorza apparente, che “salva” l'antieroe, mentre il rough resta cattivo nonostante qualche barlume di umanità. E questa è una differenza sostanziale tra le due figure.
Il protagonista rough hero necessita comunque di qualche elemento umanizzante al fine di consentire un minimo coinvolgimento nei suoi confronti da parte dello spettatore ed un espediente ricorrente è quello di metterlo a confronto con altri personaggi peggiori di lui. Il rough hero, sostiene Bernardelli, non è un personaggio fondamentalmente buono che si macchia di qualche nefandezza ma, viceversa, è sostanzialmente un villain che finisce col rivelare tracce di umanità.
Il rough hero resta dunque un personaggio immorale e negativo e le modalità con cui riesce comunque a coinvolgere lo spettatore sono al centro di numerosi studi che hanno preso il via sull'onda del successo della serie The Sopranos, messa in onda dalla HBO nel 1999. Alcuni studiosi insistono sul fatto che lo spettatore ha un'identificazione parziale con tale protagonista, essa riguarderebbe soltanto la sua vita in famiglia e ad essere valorizzati sarebbero i suoi tentativi di essere un “buon padre di famiglia”. Altri studiosi, indagando il meccanismo che porta lo spettatore ad una qualche forma di empatia con un cattivo, che resta tale, pongono l'accento sul fatto che l'identificazione con il rough hero avverrebbe soltanto grazie al suo essere meramente un personaggio finzionale e non un individuo reale, oppure mettono in evidenza che “non sempre ciò che viene ritenuto morale o immorale ha direttamente a che vedere con ciò che è legale o illegale da un punto di vista formale” (p. 51), dunque la condotta del protagonista può essere inaccettabile dal punto di vista legale ma non è detto che venga percepita come immorale dallo spettatore.
Una parte importante del dibattito proposto dal saggio di Bernardelli riguarda il rapporto tra i testi e i conflitti sociali e culturali della contemporaneità statunitense ed alcuni studi hanno messo in luce come gli antieroi problematici di diverse serie, nonostante le apparenze, non siano affatto conflittuali nei confronti della cultura dominante; si tratterebbe piuttosto di “semplici reincarnazioni dei tradizionali eroi conservatori, capitalisti ed etnocentrici, con la differenza che vengono rappresentati come ancor più sanguinari e razzisti” (p. 58). Non mancano analisi che sottolineano come diverse produzioni seriali, nel banalizzare e stereotipare situazioni di misoginia, omofobia e razzismo, finiscono per sviluppare scenari narrativi dominati da tali disvalori.

Da parte nostra ci soffermeremo in questo scritto sull’ultima parte del saggio di Bernardelli, ove, dopo aver passato in rassegna il dibattito relativo alle serie nordamericane, lo studioso si concentra su alcune produzioni televisive italiane. In tale parte del saggio vengono analizzati sia l’antieroe atipico, rappresentato da L’ispettore Coliandro (2006-in produzione, Rai Fiction), che la figura del rough hero nelle serie Romanzo criminale (2008-2010, Sky) e Gomorra (2014-in produzione, Sky).
L'ispettore Coliandro è una serie di tv movies ad episodi autoconclusi derivata dai romanzi di Carlo Lucarelli. Coliandro è un personaggio politicamente scorretto tanto che, nel corso delle diverse puntate, frasi o atteggiamenti suoi, o di altri personaggi, hanno finito col provocare polemiche.
Stilisticamente la serie ha forti connotazioni “anni Settanta” per musiche e, soprattutto, per le evidenti citazioni cinematografiche. “Lucarelli racconta che voleva scrivere una storia di cui fosse protagonista la figura di un poliziotto cattivo, razzista, e pieno di pregiudizi. Un ispettore Callaghan italiano in sostanza, ma che ogni volta che fosse caduto in uno dei sui pregiudizi o in qualche sbaglio per eccesso di superomismo, venisse punito o sbeffeggiato. Allo stesso tempo la sua negatività non poteva coinvolgerne l'integrità morale: non poteva essere un poliziotto corrotto o disonesto” (p. 73). Inoltre, lo scrittore intende evidenziare nell'ispettore alcuni difetti tipici dell'italiano medio così da accrescere la possibilità identificatoria. Certo, il personaggio della serie tv è differente da quello del romanzo e ciò è dovuto anche al fatto che alla sceneggiatura ha lavorato una equipe e non il solo Lucarelli, inoltre Coliandro ha subito una marcata caratterizzazione da parte dell'attore che lo interpreta (Giampaolo Morelli).
Un ruolo importante in questa serie televisiva è svolto dalle diverse figure femminili con cui l'ispettore viene a contatto e che diventano l'occasione per palesare i suoi odiosi pregiudizi. “Alla fine di ogni episodio Coliandro sembra liberarsi di un proprio pregiudizio attraverso il dolore per l'abbandono da parte della figura femminile di cui puntualmente si è innamorato. Potremmo dire che il personaggio cresce ogni volta attraverso le proprie pene d'amore che lo portano a perdere lungo il percorso uno ad uno i suoi pregiudizi” (p. 74).
Nonostante il processo di superamento del pregiudizio da parte del protagonista risulti decisamente meccanico e didascalico, Bernardelli ritiene che sia da valorizzare l'evoluzione del personaggio nel corso della serie “attraverso cui il protagonista sembra diventare sempre più consapevole della propria inadeguatezza e dei propri limiti. Ma paradossalmente questa consapevolezza sembra rendere il personaggio più sicuro, invece di indebolirlo” (p. 74).
L'ispettore, secondo lo studioso, può essere considerato un antieroe per inettitudine – “vorrebbe tanto essere, ma non può” – i cui limiti gli impediscono di essere l'eroe che vorrebbe essere. Tra le caratteristiche a favore di Coliandro, Bernardelli elenca l'onestà, la semplicità, la bontà e la tendenza all'empatia, mentre tra i suoi “tratti negativi di superficie” segnala l'ignoranza (da cui il pregiudizio razzista che poi, però, si manifesta “solo a parole”), la stupidità e la supponenza. Secondo lo studioso “i meccanismi che rendono Coliandro un antieroe comportano nella percezione e valutazione del personaggio da parte dello spettatore una sorta di saldo in attivo verso il bene. Coliandro è un buono nella sostanza, ma con difetti in realtà minori e superficiali che non gli permettono di essere un eroe completo nel senso più tradizionale del termine” ( p. 76).

Le due serie prodotte da Sky – Romanzo criminale e Gomorra – inaugurano invece una nuova generazione di serialità televisiva italiana sia per il buon livello qualitativo che, soprattutto, per la presenza di personaggi atipici visto che si tratta di villains trasformati in protagonisti. Entrambe le serie televisive hanno una derivazione letteraria e sono state precedute da una trasposizione cinematografica.
In Romanzo criminale abbiamo il “rovesciamento completo del rapporto tradizionale tra antagonista e protagonista dal punto di vista morale: i protagonisti sono i bad guys (la banda del Libanese), mentre l'antagonista è il poliziotto 'buono' (il commissario Scialoja)” (p. 77). Tale meccanismo di rovesciamento è determinato dalle modalità narrative che seguono le vicende della banda mantenendo l'agire del commissario subordinato ad esse. Il percorso, segnala Berardinelli, è quello tipico della tragedia: ascesa vertiginosa ed altrettanto veloce decadimento. Il commissario parte invece annaspando ma palesa di avere anch'esso caratteristiche antieroiche tanto che sul finale della seconda stagione finisce per accettare di far parte dei Servizi che si sono mostrati in larga parte non solo per certi versi complici delle malefatte della banda ma anche implicati nelle peggiori pagine che hanno insanguinato il Paese.
“La caratterizzazione tragica dei personaggi negativi della banda [...] è anche legata al costante riferimento ad una forma di ribellione alla propria condizione esistenziale [...] si ribellano alla loro città, ai suoi meccanismi, ad un modello sociale, tentando di conquistarla, cercando dia vere successo” (p. 78). Lo spettatore è portato a sostenere il progetto della banda indipendentemente dal suo essere un disegno criminale e ciò deriva anche dal fatto che coloro che si oppongono ad essa vengono presentati come villains spesso più cattivi.
Dalla narrazione corale emergono tre personaggi principali tra gli appartenenti alla banda: il Libanese, il Freddo ed il Dandi. Per ognuno di essi vengono approfonditi anche i tratti di quella normalità problematica che contribuisce ad umanizzarli agli occhi del pubblico e ad attivare il meccanismo della “pietà tragica”. Le figure femminili della serie appaiono stereotipate e l'unica che forse viene un po' approfondita è Patrizia/Cinzia che ha una sorta di doppia identità.
Bernardelli si sofferma sull'ultimo episodio della prima stagione, quando viene messo in scena un Libanese che si sente ormai abbandonato dagli altri e percepisce l'impossibilità di diventare davvero il “re di Roma”. L'attore calca la mano sui riferimenti all'eroe tragico: “Lo sguardo cupo e dal basso, l'abbandono di qualsiasi accenno di ironia che il personaggio in precedenza possedeva, unita ad una postura che già anticipa la sconfitta e la caduta del personaggio. A questi elementi legati all'interpretazione attoriale la trama aggiunge una serie si segni premonitori del tragico finale dell'episodio (gli sguardi e le frasi degli altri componenti della banda) e anche una vera e propria citazione da un'opera 'tragica', elementare indizio fornito allo spettatore per capire cosa si stia preparando e quale sia i tono della narrazione” (p. 81). Il Libanese viene mostrato in preda ad un incubo in cui si vede incapace di lavarsi dal sangue di cui si è macchiato; il riferimento è al comportamento di Lady MacBeth in preda ai rimorsi.
Sappiamo che l'unica redenzione possibile dell'eroe tragico è nella morte ed al termine della seconda stagione assistiamo ad una scena in cui Bufalo, ormai vecchio, ferito e braccato è in preda alle allucinazioni che gli mostrano i vecchi compagni che si premura di mettere in guardai dell'arrivo della polizia. Significativamente il Libanese risponde così all'allerta dell'amico: “Ao', Bufalo e che me ponno fa'? Io so' morto”. Dunque, conclude Bernardelli, “la pace, l'unica redenzione in un certo senso, dell'eroe tragico è dopo la morte” (p. 82).

Nella serie Gomorra non troviamo nemmeno un vago antagonista positivo; abbiamo solo dei villains. Non sembra esservi personaggi verso cui lo spettatore possa provare un minimo di empatia.
Il primo episodio introduce i diversi personaggi alternando vicende familiari ed azioni criminali: “Da un lato quella normalizzazione domestica e dall'altro quella straniante criminale, aliena alla maggioranza degli spettatori” (p. 82). Ben presto, però, le vicende familiari non sembrano in grado di offrire immedesimazione al pubblico nel loro disgiungersi dalle vicende criminali. La morte di Attilio innesca in Ciro la ribellione nei confronti del boss, Pietro Savastano, reo di aver mandato allo sbaraglio i suoi uomini ed una volta che il capo finisce in prigione il comando viene preso dalla moglie, “Donna Imma”, essendo Genny ancora “immaturo” per rivestire quel ruolo. Quest'ultimo subisce però una rapida (forse troppo dal punto di vista narrativo) trasformazione e ciò gli consente di scalare posizioni all'interno della malavita.
Nel saggio viene evidenziato come i diversi personaggi che vengono presentati allo spettatore nel corso della prima puntata subiscano importanti trasformazioni “in peggio” nel corso della serie e ciò allontana ulteriormente il pubblico dal coinvolgimento emotivo nei loro confronti. Lo stesso Ciro, che per un po' sembra attrarre su di sé le “simpatie” del pubblico, finisce rapidamente per mostrarsi irrispettoso di qualsiasi legge, compresa quella malavitosa, e diviene sempre più feroce, cinico ed insopportabile. “Se in Romanzo criminale la distanza storica in cui vengono collocati gli eventi (anni Settanta-Ottanta) permetteva un distacco [...] e una conseguente maggior facilità nella sospensione del giudizio etico, in Gomorra è tutto contemporaneo e realistico [...] il che determina un 'ancora più forte presa di distanza etica” (p. 86).
Nelle due serie italiane qua prese in esame, oltre ad un graduale spostamento verso caratterizzazioni sempre più negative dei personaggi, abbiamo anche uno spostamento verso una maggior caratterizzazione tragica. Lo stesso Roberto Saviano ha più volte sottolineato come l'eventuale immedesimazione del pubblico si dia non con la realtà ma con la sua rappresentazione. In Gomorra “il realismo di molte situazioni, incrementato dalle particolari tecniche di ripresa, porta [...] verso un sempre maggior distacco dal coinvolgimento narrativo dello spettatore” (p. 88). Per spiegare tale meccanismo Bernardelli propone un parallelo tra Gomorra e la serie The Wire (2002-2008, HBO) in cui abbiamo esplicitamente “un racconto in cui si trova una commistione di modalità narrative fiction e nonfiction, queste ultime più vicine ai meccanismi della cronaca o del giornalismo di inchiesta che al racconto di invenzione. Lo spettatore in questo caso è costretto a fare riferimento a meccanismi interpretativi solitamente usati per narrazioni nonfiction, della cronaca video-giornalistica” (p. 88). È in questo modo, sostiene lo studioso, che il pubblico “prende contatto con una descrizione della realtà molto più ampia di quella che si riferisce alla semplice descrizione delle azioni dei personaggi finzionali in un contesto più o meno realistico” (p. 88). The Wire pone al pubblico problematiche che vanno ben oltre le vicende del singolo individuo, vicende che non può controllare. Anche in Gomorra i personaggi si scontrano con questioni più grandi di loro; “sono a priori degli sconfitti, degli eroi tragici senza scampo. Ma senza scampo di fronte, in questo caso, non al destino, ma ad una società che non concede loro vie di uscita: una volta scelta quella strada non c'è punto di ritorno” (p. 89).

 

 

 

 

Andrea Bernardelli
Cattivi seriali
Personaggi atipici nelle produzioni televisive contemporanee

Carocci editore, Roma, 2016
pp. 100

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