“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 30 March 2017 00:00

"Punti di vista": Luciano Ventrone in mostra a Pescara

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Disciplina. Compare nella mente questa parola, osservando la prima impronta di Ventrone nelle immagini al principio del lunghissimo corridoio, intimo sentiero nel corpo materiale del museo. Di primo acchito, e per chi non sapesse cosa sta andando a vedere esattamente, le opere dell’artista potrebbero essere confuse con fotografie e forse, per chi non le osservasse con l’intenzione di guardare veramente, potrebbero trarre in inganno anche ben oltre lo sguardo iniziale. Ma, chiaramente, ciò che importa non è accorgersi di essere di fronte a dipinti e non a riproduzioni fotografiche. Che basti esserne coscienti per informazione data; il punto, qui, è un altro.

L’allestimento ha previsto che le opere fossero collocate lungo la suggestiva e didascalica teoria dei reperti antichi, delle fotografie d’epoca e degli oggetti esposti, testimonianze della culturale rurale, della genuina anima contadinesca e pastorale del popolo lavoratore d’Abruzzo. Nel risuonare pacato di un moto di vento lento e quasi silenzioso (non ci chiediamo da dove venga quell’impressione uditiva), fra monili di generazioni passate, abiti, utensili delle tradizione e ricostruzioni di rifugi esterni, tra una povera, caldissima stola in lana ed un braciere, s’inseriscono i lavori di Ventrone. Si palesano come a sorpresa, ben evidenti nel mezzo della superficie muraria o appartati in angoli, dietro piccoli paraventi e risvolti dell’articolato ed accogliente percorso. E sono come piccoli riflettori di luce glaciale, nella nitidezza estrema della loro fattura e del loro colore.
Naturalmente non si tratta di una corrispondenza diretta e scolasticamente puntuale fra la natura morta e la cosa tangibile che appartiene all’identità, alla storia o alla nostra memoria. Semplicemente, in modo naturale, la rappresentazione, o meglio la ricreazione perfetta di limoni, di foglie, di melograni, fiori, cesti di vimini e quel che si voglia, rimanda alla realtà degli oggetti mostrati, e viceversa. C’è fra essi un dialogo, ma è più sbilanciato in favore del quadro, nel senso che è più facile che l’ultimo sguardo di ricognizione si vada a depositare lì, quale chiosa sulla percezione di ogni specifico ambiente espositivo. L’Iperrealismo (ma ognuno interpreta a suo modo l’opera di questo pittore) attraversa molte differenti personalità nelle arti visive, molte diverse situazioni, ed è contingente a diversi frammenti di tempo, afferendo a momenti disgiunti nel corso della storia. All’interno dell’epoca a noi contemporanea, ed in quella sì contemporanea ma storicizzata, molti hanno scelto e battuto a loro modo tale riconoscibilissima strada.
Certo queste sono considerazioni da storici dell’arte, così come lo è anche l’immediata certezza che ci troviamo di fronte a realistiche creazioni che non possono che appartenere alla seconda, inoltrata metà del ‘900, almeno. Avvicinandoci con lo sguardo a questa sorta di schermo HD di una levigatissima superficie di tela di lino, vaghiamo tra microscopici meandri di certosini dettagli e passiamo dal particolare al generale, dal generale al particolare, proseguendo in questo modo fin quando ci aggrada. I realisti “esagerati”, i quali non sono all’altezza del compito che loro stessi si sono prefissati, potrebbero sembrare tutti uguali. Del resto anche coloro che lavorano seguendo altre correnti e tendenze più o meno pedissequamente possono apparire come un’unica, sterile e stereotipata massa. Cerchiamo dunque il quid, la traccia distintiva. A pochi centimetri di distanza la testura di ogni pennellata è piuttosto secca nel risultato, i rapporti cromatici sono diretti, spesso senza mediazione nei trapassi chiaroscurali, e molti sono gli accostamenti o i tocchi di colore puro, come le spesse macchie di bianco sui profili di foglie abbagliate dalla luce. In quest’ottica di brutalità, e ad un’osservazione ravvicinata, la composizione si avvale di contrasti netti ed immediati ed attraverso un disarmante rigore tecnico giunge a un’immagine completa e coerente fra tutte le parti.
Ma il colore, pure la scala delle tinte calde, è deprivato del suo ardore. Anche se alcune fra le opere recenti, quelle che ad esempio riproducono le creste di onde marine, sembrano veicolare un’aria maggiormente coinvolgente per i sensi. Prima dell’insieme delle nature morte (o vive, come l’autore le definisce) troviamo in esposizione piccoli e significativi studi ed opere realizzate fra gli anni ’60 e ’70. Nelle ridotte composizioni di oggetti dai colori delicati e pastosi, e varie nel loro assemblaggio, aleggia una riflessione sulle avanguardie della prima metà del ‘900, già tesa però verso una ricerca struttiva compatta, uno studio formale integrato dai soli rapporti visivi fra le cose, non interessato a quei passaggi concettuali trasponenti altre dimensioni, che siano quelle temporali o dell’interpretazione soggettiva dello spazio. Anche in un’opera come Il giardino dell’alchimia (1971), l’umano lirismo è presente ma stemperato in una metallica, chimica stesura che è analisi (certe componenti sono parziali abbozzi naturalistici ed organici) e fantasia al contempo. Buona parte della cifra stilistica di Ventrone sembra risiedere in un nitore cromatico spietato, la sua è un’espressione in un certo qual modo bizzarra, che rifuggendo una banale qualità romantica utilizza la sua materia pittorica asettica nell’esprimere pensieri e ricordi che non sono neanche indirettamente legati alla riproduzione dell’immagine e ad un suo presunto vagheggiamento, per questo vicini ad un soggettivismo che paradossalmente potremmo definire collettivo, spersonalizzato.
Per lo stesso motivo scoviamo un’astrazione che non esula dall’esatto realismo estetico, con la sua patina o con la sua macroscopica evidenza quasi pop (come nel dispiegamento dell’immenso melograno aperto suddiviso su più riquadri), ma vuole essere soltanto di senso e di programma. D’altronde l’artista dice ai suoi seguaci: “Lo studio della pittura non è la mera rappresentazione dell’oggetto ma è colore e luce: i giusti rapporti fra le due cose danno la forma nello spazio. Il soggetto non va visto come tale ma astrattamente”. Dev’essere un concetto a lui imprescindibile, e sicuramente molto caro. La filosofia dell’oggetto che non è oggetto racchiude la sintesi di concezioni espresse in titoli quali, fra altri, Il tempo delle vanità o Il distacco, ma, come abbiamo spiegato, non si tratta mai di una mitica allegoria e tutto continua a stare solo nei rapporti cromatici e formali.
La chiarezza e l’ordine si provano sempre nell’abitare anche le parole dell’artefice di questi dipinti. Essi transitano fra le sue idee e le sue opere, e restano lì fermi, ne sono aspetto e regola fissata alla base ed all’interno di quell’aspetto. Norma immutabile, perentoria, scopo ultimo della visione. Che la sua arte susciti o meno interesse ed entusiasmi, è tutt’altro che semplice fare quello che fa Luciano Ventrone. E non ci riferiamo alla distaccata ossessività manuale che richiede un continuo ed approfonditissimo studio, ma alla capacità di produrre un reale così fittizio, e contestualmente un così artefatto ed astratto simulacro di cose vere convertite in un’allucinazione composta, spaventosamente iper-dettagliata, abbacinante persino nella più verace e microscopica imperfezione della buccia di un frutto.  

 

 




Luciano Ventrone
Punti di Vista

a cura di Mariano Cipollini
Museo delle Genti d’Abruzzo
Pescara, dal 4 febbraio al 28 maggio 2017

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