“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 29 October 2016 00:00

"Ilva Football Club": la poesia del Reale

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L’inquietudine e la malinconia di chi anima e ama Taranto restano lontani dalla ribalta nazionale. Raccontarla, oggi, non prevede che qualche collage, qualche veloce inchiesta disponibile a microfonare le sue voci qua e là, disordinatamente. Si discute con le istituzioni e di processi, polemiche, decreti governativi, di espropri, proteste dei lavoratori, lavoro, crisi, questione operaia, delinquenza. E dei “cadaveri rossi”, i loro nomi e le loro vite, della gente morta per colpa delle polveri minerali sputate dall’Ilva? Se ne parla, certo, ma non abbastanza. Se ne parla ma non si piange, non abbastanza.

Per comprenderla, la realtà, certe volte non va ricordata, va pianta. Solo così diventa vicina, condivisibile, “reale”. I ricordi invece, spariscono. Primi fra tutti, i prodotti di storytelling dei talk show.
Le ginocchia rosse dei ragazzi che sfrecciano laggiù, tra i vicoli disperati e folli del quartiere Tamburi di Taranto che vive accanto all’Ilva, sono reali com’è reale la fatica delle reti, il mare sbiadito di barche e conchiglie sformate dall’inquinamento. Non è storytelling. È tutto reale come sono reali i capelli spezzati delle madri che urlano dalle finestre, madri bianche che puliscono i balconi, mano rossa sulla fronte corrugata ormai per sempre. Molte di loro hanno perduto un marito, altre una madre e un padre, un fratello, una sorella. Moltissime, un figlio. Non è un talk show. È tutto reale, come sono reali e profonde le occhiaie incavate dei preti, il loro imbarazzo per un dio cieco, com’è reale l’imbarazzo delle rondini che giocano in aria, le ossa di ferro delle torri della fabbrica che ti seguono dappertutto. Tutto vero come sono vere le tombe rissose dei morti, rosse per le polveri minerali che le insozzano e li insultano, insultando anche noi. Vere com’è vero il cancro, che giù, qui al Sud, a Taranto e provincia, ci uccide.
Una verità così incavata, così vera come quella delle croci di Taranto non dev’essere ricordata e poi chiusa, ma “cantata”, ogni giorno. E chi può cantare se non i versi della Poesia e le storie dei Reportage?
Poesia e Reportage narrativo è Ilva Football Club, il nuovo lavoro di Fulvio Colucci, giornalista tarantino del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno e scrittore – premio Ilaria Alpi 1995, autore di La zattera (Il Grillo Editore, 2015), Liberté (Il Grillo Editore, 2011) e Invisibili-vivere e morire all’Ilva di Taranto (Kurumuny, 2011) –  che canta “il rosso” difficile e il blu cobalto e bello di Taranto. Penna sensibile, Fulvio Colucci sviluppa in scrittura l’idea di Lorenzo D’Alò, giornalista sportivo tarantino e inviato della Gazzetta del Mezzogiorno, che dopo il sequestro dell’Ilva da parte della magistratura per disastro ambientale, decide di dare voce alle vite invisibili e perdute di quella generazione di calciatori di cui aveva fatto parte negli anni ’70 e ’80, undici “lucciole” che con i loro cross “illuminarono il campo dei veleni”, il terreno del campo sportivo Tamburi vecchio, pericolosamente seduto a un passo dall’Ilva. Il giardino avvelenato per i piedi-lucciola di La Carbonara, Ripiano, Papalia, De Tuglio, Andrisani, Guarino, Catapano, Casile, D’Alò, De Gennaro, Capozza: sono questi i nomi dei giocatori, tutti veri, tutti morti per colpa dell’inquinamento, uccisi dal cancro, “ammazzati dall’aria che respiravano sul terreno di gioco e in acciaieria. Perché operai erano anche loro”. Scrive Fulvio Colucci: “Furono lucciole questi atleti, le lucciole operaie. Illuminarono il campo dei veleni con i loro cross, così simili alle adorabili traiettorie delle lucciole, con le loro invenzioni di gioco” che correggeva il loro destino di operai. Un brillare breve il loro, “l’avvenire di un’illusione”.
Ilva Football Club raccoglie le loro storie attraverso tre voci: la testimonianza di Lorenzo D’Alò, le sue sfide di “ragazzo smilzo e svelto” innamorato delle rondini e del pallone, difensore ostinato sul campo dei Tamburi, che procede in direzione tenera e contraria, contro ogni matematica, e le sue sfide di figlio annodato nella vita, per il padre morto di cancro; la testimonianza di Antonio Cavallo detto Ciccio, commerciante diventato memoria storica del calcio di quartiere, e quella commovente di un ex allenatore delle formazioni amatoriali, una vita dedicata ai giovani, il calcio come studio e riscatto, Gino Vinci, morto un anno fa.
La storia di Taranto è la storia di queste voci, di quegli undici giocatori, di don Franco, e poi di Peppino Corisi e Franco Portulano, di tutti i caduti per tumore o incidente in fabbrica: “di Ilva Football Club, di formazioni con i nomi dei caduti per inquinamento o per lavoro, se ne potrebbero creare decine e a loro restituire voce e memoria”. Perché la storia di Taranto è la storia dell’Ilva, è una storia di “morti e vivi, fianco a fianco”.
Il testo, Ilva Football Club, è una raccolta di parole immaginifiche, dure e suggestive, simboli ben orchestrati nella forma del reportage narrativo, fotografie in versi, capaci di parlare e far parlare davvero Taranto: il vento, la polvere, l’Umanità-operaia. 
Il vento come l’inatteso, l’imprevedibile che può spazzare via tutte le cose. Ai Tamburi, il vento è l’inatteso maligno, scia di polvera rossa, i veleni dell’Ilva, vento di nuvole “tossiche gialle, viola e ocra”, che convive col vento buono, quello spinto dalle rondini, quello prodotto dai ragazzi che corrono spingendo la palla su un campo di calcio.
La polvere. La polvere cattiva, rossa e operaia, “il rosso del sangue e del ferro” che colora le lapidi, la polvere nera del carbone, e la polvere bianca, la peggiore di tutte, perché è “la cipria” dei morti. La polvere buona: quella sollevata dai ragazzi che giocavano a calcio sul campo dei Tamburi, quelli che “le reti ce le hanno regalate i pescatori e le abbiamo adattate su pali”, i ragazzi che vincevano e aprivano le braccia imitando le rondini, i ragazzi che inseguivano il gol, illuminando il campo di tenacia, rabbia, progetti e disperazione, di speranze. La gioia di perdersi, smarrirsi, attrarre il futuro.
Umanità-operaia. Molto di quello che viene descritto da Lorenzo D’Alò e Fulvio Colucci in Ilva Football Club viene aggettivato come “operaio”: il panino operaio, il corpo operaio, il passato operaio, il tempo operaio, il destino operaio, il palazzo operaio, il calcio operaio, il sogno operaio, a testimoniare come l’Ilva abbia “unto” l’uomo e divorato il suo pane, trasfigurando il suo corpo, anche le sue emozioni, i suoi pensieri. Anche il tempo della vita. Quasi fosse un’umanità a sé, con la sua bandiera: “la bandiera tricolore del quartiere: grigio ciminiere, rosso minerale, nero cokerie”.
Obiettivo di Ilva Football Club è raccontare per parlare, per non smettere di urlare. Testimoniare la vita fra le ciminiere in un quartiere simbolo di Taranto attraverso il calcio, lo sport inteso come riscatto e liberazione, “rito collettivo e purificatore” che libera dalle polveri. Disegnare le “scie luminose spentesi in un vento grigio”, non dimenticare la volontà di vivere accesa di chi ci ha lasciati. Testimoniare l’amore carico di rabbia di chi resta, di chi non riesce a comprendere il nodo di attrazione-repulsione per Madre-Ilva, che cresce a ridosso di tutti e tutto, e tutti e tutto ingoia. Raccontare l’amore per la vita incastonato nella contraddizione ancora irrisolta dove, legate, nuotano salute, lavoro e ambiente. Raccontare la vita. Perché Taranto non ha smesso di giocare la sua partita. Taranto, vive.

 

 


Fulvio Colucci – Lorenzo D’Alò
Ilva Football Club

Calimera (LE), Edizioni Kurumuny, 2016
pp. 77

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