“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 October 2016 00:00

L’infelicità del sesso inutile

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“La rivoluzione” disse una signora cinese a Simone de Beauvoir “ci ha liberato dall’amore”.


Siamo negli anni ’60, Oriana Fallaci inviata de L’Europeo, compie questo incredibile viaggio intorno al mondo, scegliendo mete che per il loro fermento politico e culturale si dimostrano efficaci per lo scopo del viaggio: raccontare la condizione femminile e l’universo interiore delle donne nel mondo. Oriana Fallaci è stata una grande giornalista e un’immensa scrittrice, amata e letta in tutto il mondo, odiata da molti per le sue ultime idee che l’hanno resa miope nei confronti di quella realtà e verità da lei sempre difese come cifra di un grande scrittore e di un essere umano degno di tale nome.

Però ne Il sesso inutile è la Fallaci degli anni Sessanta che ci parla, la Fallaci lucida, critica, poetica, severa con i fatti e le interpretazioni, ma anche piena di quella vitalità che riuscirà sempre a rendere la sua scrittura e i suoi libri manifesti di un coraggio e di una rabbia esplosivi. Il modo in cui ci presenta i fatti non manca mai di personalismi, di intimità, questo rende impossibile il distacco e la distanza che ci si aspetta da testi giornalistici, in reportage che raccontano interviste e personaggi della storia. Le interviste per la Fallaci sono dialoghi ad armi pari, anche se spesso è lei quella più forte, il confronto con la storia, con il potere e con l’arte è una conversazione ricca di sfumature e povera di tecnicismi noiosi, nei suoi libri le parole degli altri per quanto riportate fedelmente diventano confessioni ad un amico, solo in alcuni casi ad un nemico, ma anche in questi frangenti c’è qualcosa di estremamente umano, reale, tanto da restituire vita a un semplice colloquio formale. Oriana Fallaci è stata una scrittrice, prima di essere una giornalista o un’inviata di guerra, questo status ha segnato la sua produzione inesorabilmente, poiché solo uno scrittore ha il diritto e l’onere di creare e trasformare, come uno scultore, la materia trattata, senza mutarne mai la sostanza.
Dalla prefazione di Giovanna Botteri leggiamo: “Per le donne incontrate nel Sesso inutile la felicità ha molto a che fare con la libertà e poco con il potere”. Durante l’interminabile viaggio basta poco per rendersi conto che è effettivamente così. Partiamo dal Pakistan dove un esercito di donne chiuse nel Purdah ci viene incontro, un esercito di donne invisibili, di spose bambine, una sciame nero di donne che vivono nella completa oscurità, in un Paese dove il sole è caldo e più luminoso che in qualsiasi altro luogo. La sensazione della Fallaci che cammina per le strade è quella di essere l’unica donna sopravvissuta a un diluvio universale nel quale siano affogate tutte le altre. Questo indumento che per molte indossarlo potrebbe essere frutto di una libera scelta, per molte altre è solo una prigione le cui sbarre hanno il nome di religione, cultura, e società. Chi si ribella spesso è condannato all’isolamento e in alcuni casi a pene capitali, stessa regola per le spose bambine, incubatrici ignare di cosa sia l’amore e il volto dell’uomo che dovranno sposare. La Fallaci le definisce le creature più infelici della terra, poiché a differenza di molte non sanno neppure di esserlo. Il viaggio prosegue in India, dove ci aspetta Rajkumari Amrit Kaur, la segretaria di Gandhi, colei che sparse le ceneri dello stesso nel Gange. Una donna potente, conosciuta e venerata da tutti, convinta che senza disobbedienza non può esserci rivoluzione. Racconta alla giornalista le lotte che le donne si ritrovarono a capeggiare in India, come il Satyagraha del sale, che è appunto una resistenza passiva, non violenta, che le donne portarono avanti e vinsero. Amrit Kaur definisce le donne indiane “farfalle di ferro”. Però basta una passeggiata per le strade di Calcutta per rendersi conto che quest’India caratterizzata da tantissime donne al potere è in realtà l’India di poche donne ancora, nient’affatto l’India delle indiane. È l’India del Birth Control (il controllo delle nascite), ma è anche l’India in cui la vedovanza è uno stato così umiliante e definitivo da spingere una donna a gettarsi nel fuoco scoppiettante in cui il marito morto viene cremato. Atterriamo in Malesia, precisamente alla ricerca delle matriarche e ci dirigiamo verso Kuala Lumpur. Il matriarcato è antico quanto il mondo, per molti filosofi, filologi ed etnologi il matriarcato fu il principio di tutti i governi, la prima forma e il primo potere nelle comunità umane. Qui le matriarche fondano la loro supremazia su ragioni economiche, sono loro a possedere le terre, quelle terre che poi passeranno alle figlie femmine, non agli uomini. Nelle matriarche che incontriamo nella foresta non c’è odio nei confronti degli uomini, solo un’indipendenza tale che le rende insopportabili agli occhi della società. Forse perché il potere femminile ha sempre bisogno di giustificazioni, essendo creduto artificiale, mentre quello maschile, naturalizzato nei secoli, appare più onesto e inalienabile, quasi ricavasse la sua legittimità dall’essenza e dalla volontà primigenia creatrice.
Siamo in viaggio e ci avviciniamo sempre di più alla Cina, quella rivoluzionaria, quella Rossa di Mao Tse-tung, divisa da Hong Kong, dove la bandiera di Elisabetta II sventola alta sui tetti e sulle persone. Prima di addentrarci in questo universo spaccato in due, incontriamo Han Suyin, una scrittrice/medico cinese. Famosa in tutto il mondo per la sua storia d’amore con un giornalista americano morto tragicamente. Han Suyin è una donna di successo, colta, brillante e ricca, eppure scrive per arginare l’infelicità. La Fallaci si domanda come sia possibile che una donna di tale calibro possa coltivare un’infelicità tanto profonda per una vita sentimentale burrascosa. Probabilmente è presto anche per lei, siamo negli anni Sessanta, Un uomo non è stato ancora scritto, Alekos Panagulis non ha ancora sconvolto la sua vita, Oriana Fallaci deve aspettare ancora qualche anno prima che possa rendersi conto del potere invasivo dell’amore.
Arriviamo finalmente in Cina, il visto ci permette di accedere ad Hong Kong, la Cina rossa ci è preclusa. Da una parte il confucianesimo impera, dall’altra la nuova legge sul matrimonio cambia l’assetto dei rapporti, l’assoluta monogamia è obbligatoria e la donna mantiene il diritto di conservare il suo cognome. Un fermento anima questi due polmoni divisi, pratiche secolari e brutali come quella dei piedi fasciati o dei postriboli sono oramai bandite, eppure la carenza di una religione forte e caratterizzante non ha impedito ai cinesi di coltivare un istinto puritano che rende la parola amore un tabù. “La rivoluzione” disse una signora cinese a Simone de Beauvoir “ci ha liberato dall’amore”. Il matrimonio come istituzione ha moralizzato la parola amore, in più il comunismo con le sue uniformi ha diffuso il cameratismo tra sessi. Una donna potente di Hong Kong afferma che i comunisti cinesi considerano l’amore un hobby da pigri. Le femministe materialiste parlavano a quei tempi dell’amore come estorsione non coercitiva, ma sotterranea, luogo in cui si ripropongono secondo ontologia rapporti di forza e non di senso. Questa liberazione ha il gusto amaro di un grande fraintendimento. Il dominio maschile ha trovato terreno fertile soprattutto tra le mura domestiche grazie a una propaganda che si è servita dell’amore come finalità escatologica della donna, suo destino genetico ed esistenziale. L’amore è stato un furbo imbonitore, un docile carceriere, una condanna poetica. La tristezza che deriva da questo fermento culturale proviene dall’incapacità del mondo femminile di riconoscere la manipolazione maschile e sociale di una capacità umana per sua essenza libera, l’amore non era e non è il carceriere, eppure dalla rivoluzione alla reazione il passo è breve, spesso inevitabile, indispensabile. Anche in Giappone l’orizzonte non cambia. Però il Giappone e le Hawaii – ultima tappa del viaggio – ci porgono due tendenze che hanno plasmato estremamente le mentalità e le ribellioni, parliamo della colonizzazione, dell’invasione da parte degli occidentali (siano essi missionari con la bibbia sotto il braccio o americani con la gomma in bocca). Le Hawaii sono isole americane, dove il ballo in voga che intrattiene i turisti è stato stravolto e umiliato, reso volgare e privato del suo significato originario. La Hula non è un ballo sconcio, spiega una vecchia guardia del luogo, la Hula era un linguaggio naturale e antico, dove il corpo stesso esprime il senso poetico e dinamico del verbo.
Emancipazione e progresso: queste due colonne d’Ercole oltre le quali pare che il mondo sia destinato a non esistere più, chiuso in dei limiti enormi, ma comunque chiuso. Attraverso queste colonne arriviamo e torniamo a New York, dove avviene l’analisi più cruda e triste, quella che restituirà un senso finale al viaggio, poiché è qui, dal nostro mondo, che comincia e parte quel carico di illusioni che ha dato alla donna nel mondo l’ardire di ribellarsi, ma mai il coraggio di essere felice. La felicità è una sagoma, è malleabile, si adatta alla circonferenza di ognuno, ma il nostro caro Occidente ha deciso di chiamare la felicità ‘Emancipazione e progresso’, distruggendo le specificità, le personalità, imponendo con fare salvifico modelli e canoni, portandoci su campi di battaglia neutrali, obbligandoci a combattere guerre ‘ambigue’ e, in fin dei conti, non nostre. La solitudine che aleggia sulla donna al potere, tra i grattacieli di New York, ha il sapore di una stupidissima infelicità, perché inutile non è il sesso a cui apparteniamo, inutili sono i piani di appoggio su cui costruiamo la nostra vita, senza considerare la solidità di un piano, ma solo la sua altezza.

 

 

 

 

Oriana Fallaci
Il sesso inutile – Viaggio intorno alle donne
Rizzoli, Milano 1961-2010
prefazione di Giovanna Botteri
pp. 205

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