Print this page
Thursday, 06 October 2016 00:00

Sguardi fotografici condivisi: “Io ti vedo”

Written by 

Si può impostare un corso di fotografia in modo che somigli il meno possibile ad un usuale corso di fotografia. Si può strutturare l’incontro con l’altro intorno all’elastica ossatura della condivisione (e farne anche obbiettivo della crescita personale e creativa), più che intorno all’impartire lezioni. E lo si può fare per inseguire il giusto mood fotografico, che è poi una dimensione non dissimile da quella fase in cui si desidera dialogare al massimo livello con il pensiero che c’è dietro il nostro occhio, e di mettere gli altri nella condizione di dialogarvi a loro volta. Il fotografo Stefano Schirato presenta i tre colleghi in mostra confermando sin da subito la professionalità ormai già da tempo acquisita da questi operatori, ed evidenziando la loro volontà di mettersi in gioco con convinzione, ma soprattutto con perseveranza, insistendo con il loro sguardo su soggetti che vivono in situazioni difficili da concepire e da spiegare, stando da quest’altro lato della linea.

Il long term project è appunto la costanza dell’interesse dimostrato per ognuna di queste situazioni, particolari dal punto di vista del resto del mondo, consuete per chi le sperimenta quotidianamente. Non è di certo nuovo l’intento esplicitamente sociale di questi progetti o la loro modalità d’approccio, ma al di là di qualche risvolto un po’ retorico diversi scatti attestano l’alto livello di coinvolgimento e una determinata volontà d’indagine introspettiva da parte di questi testimoni, la quale non può prescindere dal compiersi su sé stessi prima che sul soggetto ritratto, e che si propone come tentativo di sensibilizzazione e di ricerca di aiuti concreti per queste case di accoglienza. Nel bianco e nero di Alessandro Battista (La stanza che non c’è), è l’attimo di vita di persone segregate nella gabbia di un malessere profondo, e di conseguenza in una degenza lunga quasi quanto un’esistenza intera, in certi casi. la malattia interiore, psicologica e psichiatrica, è qui riverberata in alcuni delicati momenti di intimità vissuti nella struttura che accoglie i sofferenti.
Nella morbida texture dell’immagine, i segni del lattice dei guanti che coprono le mani di uno degli esperti, i quali dedicano il loro tempo a queste sconosciute anime, sono come grinze di una pelle diversa se paragonata a quella nuda del paziente, accarezzata dal tocco freddo della membrana che separa dal contatto diretto, ma necessariamente riscaldata da quel sincero gesto di cura. È discreta la presenza del guanto, ma significativa in quanto unica testimonianza, in una ripresa tanto ravvicinata, del fatto che l’azione si svolga al di fuori delle mura domestiche. E sapiente, ancor prima che turbato da un’interiore ed estranea luce, è lo sguardo dell’uomo che s’intravede al di là del vetro, in un insieme sovrapposto di elementi opacizzati, trasfigurati e quasi cancellati dal gioco di riflessi, mentre qui e lì ricorrono scorci di persiane, in alcuni momenti una vera e propria cortina di tapparelle, a schermare parzialmente l’approdo di un’illuminazione naturale forte, ma dalla malinconica parvenza. È in Simona Budassi (Hell in My Veins), nell’indagine umana all’interno di un centro per i malati di HIV, che una colorazione leggermente vaga e spesso non troppo contrastata, pone in rilievo una teoria di immagini fuori dal tempo, a tratti in un’atmosfera di alienazione figurativa, oltre all’apparente isolamento dal contesto urbano (anche qui il mondo circostante non si vede, essendo lasciato totalmente all’esterno, per un’assoluta concentrazione su quelle scene solitamente invisibili).
Un’aria assorta veglia sul quasi monocromo prospetto di un edificio in parte fatiscente, ed enigmatico perché tagliato in modo da essere di non facile lettura nei suoi principali elementi architettonici. Quasi una sorta di versione più brutale, ma magnetica, della fenêtre en longueur di Le Corbusier, trasforma i suoi vetri in languidi specchi, all’interno dei quali poche sbiadite immagini, e l’efficace, quasi glorioso ritratto di un paziente, campeggiano fieri e placidi, stagliandosi contro una minima porzione di cielo stretta in una composizione surrealista. E vivido è invece il doppio ritratto che emerge dall’oscurità di una stanza buia. Il cinematografico viso segnato di un uomo, in parte voltato verso un più giovane volto d’infermiera, è rischiarato, insieme all’altro, nella provvidenziale congiunzione donata da un raggio di luce classica. Pur avendo entrambi le labbra pressoché impercettibilmente dischiuse, restano le loro espressioni a conversare fra loro e con lo spettatore, ed un disteso silenzio tutt’intorno ad un attimo che sembra eterno, ad un istante che sembra compiersi proprio dinanzi a noi. Termina con il lavoro di Erika Secondino (Symphonic Mind) quella che è stata la nostra breve escursione.
Torna ancora il bianco e nero. Stavolta le ombre sono più intense perché servono a spostare l’attenzione sulle linee di luce che intagliano profili. Sono discrete invasioni nell’ambiente di giovani musicisti che si esercitano. E così schiene curve, teste reclinate ed arie assorte dietro affascinanti corde d’arpa sono l’oggetto che concretizza la passione per la musica e il suo valore, fra i tanti altri, terapeutico. In uno scatto, l’ombra gestuale del direttore d’orchestra sulla parete bianca, infonde il mistico aspetto di un piccolo prodigio che attiva i suoni melodici nella stanza. Essa è più leggiadra ma al tempo stesso più potente della presenza fisica appena suggerita dalla mano, la quale sfugge per un attimo insinuandosi nel campo visivo della fotografia. Alla fine del percorso vengono in mente le parole pronunciate da Schirato in occasione dello scorso martedì fotografico, al pub Babilonia di Pescara. Il fotoreporter parlava di un jet lag  psicologico, in relazione al ritorno alla vita di tutti i giorni dopo aver affrontato un lungo periodo di tempo a stretto contatto con delle realtà completamente avulse da quella alla quale siamo abituati. Schirato affermava che dall’esperienza di reportage di immani tragedie umanitarie (ricordiamo il suo recente progetto One Way Only), dalla vista delle conseguenze della guerra, della povertà e dell’emarginazione si esce intimamente segnati, fulminati. Al tempo stesso però, rientrando nella propria quotidianità, si riesce a riacquisire man mano un equilibrio. Quando si ha a che fare con la malattia invece, specialmente con il disagio psichico, potente ed oscuro, si avverte la sensazione di non poter tornare mai del tutto indietro. Non esiste una precisa e sicura via d’uscita dagli invisibili misteri della mente, ed addentrarsi in essi attraverso la compenetrazione dei sentimenti altrui è una scoperta continua, che incide inesorabilmente sulla propria esperienza di vita, permeando in modo persistente l’interiorità.

 

 

 

Io ti vedo
Erika Secondino, Alessandro Battista, Simona Budassi
organizzazione Mood Photography
Museo delle Genti d’Abruzzo
Pescara, dal 30 settembre al 2 ottobre 2016

Latest from Roberta Andolfo

Related items