“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 05 August 2016 00:00

Funamboli del dolore nel teatro di Lepage

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File di luci si accendono una alla volta delineando una sagoma, come meridiani di un corpo umano che si staglia sempre più netto sull’oscurità del palco, fino al volto dell’attore che si illumina. Indicano i punti vitali dell’agopuntura, trovati a partire dalle pratiche di tortura – comincia a raccontare la voce in scena – ma che hanno il fine di curare. Sembra che tutto possa essere curato con l’agopuntura, persino i peggiori mali: “Tutto tranne l’angoscia, la mancanza di autostima e il cuore infranto”. D’un tratto su di un riquadro al centro della scena si apre un cielo notturno pieno di stelle e l’uomo comincia a volteggiare e librarsi in aria, sospeso, come senza gravità.

Quel riquadro di stelle, quando cambia la scena, si scopre essere un cubo aperto, composto da sole tre pareti congiunte in un angolo; una sorta di scatola magica sospesa nel buio del palcoscenico, in grado di trasportare lo spettatore di visione in visione, come in un sogno, illuminandosi di immagini che diventano lo sfondo di ogni scena: una camera dell’Hotel de La Louisiane a Parigi o la metropolitana e i sobborghi di New York, il retro di un locale per concerti, lo studio di uno psicanalista o un cielo attraversato da stelle cadenti...
Si parte dal cielo dove, a bordo dell’aereo che lo riportava da New York a Parigi, nel 1949 Jean Cocteau scrisse la Lettera agli americani, un testo misto di fascino e disincanto per il ‘Mondo Nuovo’, una riflessione dell’artista francese sulla modernità, che funge da traccia, da cornice simbolica a tutto lo spettacolo, condensata all’inizio in una immagine allegorica: "Nello stesso paese, mentre un uomo rincasa di notte, un altro si sta svegliando per andare a lavorare". Al centro del viaggio il regista mette in scena la sua storia autobiografica di artista proveniente dal Canada e venuto a registrare – o almeno a provarci – un documentario sulla Parigi degli esistenzialisti; la vicenda di uomo in crisi dopo essere stato lasciato dal suo amore, in preda a un profondo malessere, in cerca di una “disintossicazione emozionale”, una cura, tanto come uomo che in quanto artista. La ‘sua’ storia si intreccia in vario modo con quella di Miles Davis, accolto invece a Parigi con la sua tromba dai più grandi intellettuali e artisti francesi e, soprattutto, dalle braccia di Juliette Greco, il suo amore, cui tuttavia sarà in qualche modo costretto a rinunciare per fare ritorno a New York.
La regia snoda il percorso attraversando quadri che mostrano ‘angoli’ di vita quotidiana – sigarette fumate nei retrobottega, l’estenuante ripetizione di registrazioni audio dello stesso testo, notti insonni in camere d’albergo al suono dei gemiti dei vicini, ridicole telefonate intercontinentali di disperazione d’amore – mettendo in scena un’allegoria della vita moderna caratterizzata da contrasti che la macchina teatrale realizza performativamente sulla scena. Dal contrasto che tiene insieme dolore e creazione – o disastro – viene sviluppato il rapporto problematico, sempre in bilico tra “strofe e catastrofe”, tra la realtà e l’artificio, alla ricerca dell’invenzione – propria dell’arte o del sogno – necessaria all’uomo moderno per ritrovare (o ri-creare) il senso smarrito della vita, da un punto di vista non solo esistenziale ma anche storico. Così lo spettacolo è costruito sul contrasto tra pesantezza e levità, sulla tensione che oppone una dimensione oscura, quando non disperata – evocata dal cono d’ombra che avvolge e in cui sprofondano le figure che popolano la scena – alla scena stessa, a quella scatola sospesa che offre invece visioni, che scivola leggera da un’immagine a un’altra, come un volo, come l’assenza di gravità offerta dall’illusione dell’arte, dalle sue ‘trovate’ o creazioni, come nella musica o nel sogno, come nel teatro. I corpi degli attori, infatti, tirati dal proprio peso verso il basso del palcoscenico, si trovano in difficili equilibri con la scena/cubo, lievemente inclinata, mettendo alla prova durante la recitazione la capacità di sfidare la gravità, di mantenere l’equilibrio come su di un filo sottile mentre, intanto, il cubo ruota su se stesso, trasformandosi in nuove scene, con finestre o porte che fungono da botole dove gli attori entrano o escono. È lo stesso Cocteau che suggerisce un tale contrasto, definendo se stesso un funambolo dell’animo e, la sua, un’opera da sonnambuli, propria delle ore notturne di veglia.
A sua volta il ‘notturno’ richiama la funzione, il significato del sogno connesso all’arte, delle visioni a occhi aperti, fossero pure gli incubi più terribili: l’onirico assume una dimensione in grado di riportare alla luce le ferite, i nodi più profondi e dolorosi della vita e, insieme, di offrire la possibilità di curarci, metterci in salvo da essi, come la musica di Orfeo nel suo patto con la morte, almeno finché durò, prima di essere dilaniato dai mostri. Al contrario, il progresso nega e si sostituisce all’onirico, limitandolo come in un recinto o una riserva indiana soltanto al momento di riposo proprio del sonno, a ‘quando si dorme’. La vita moderna sembra affermare l’impietosa, incalzante necessità di avanzare, superando e lasciandosi alle spalle ogni ‘peso’, negando quindi diritto d’asilo al sogno, all’immaginazione estetica che, invece, ‘sospende’ il flusso, interrompendo e scardinando la progressione delle cose: ecco perché, verso la fine dello spettacolo, viene affermato che “in futuro saremo puniti per i sogni, controllati non più dagli psichiatri, ma direttamente dalla polizia”. E se l’industria culturale o le veglie notturne producono solo visioni da incubo, incapaci di curare le ferite, allora – suggerisce Robert (Lepage) alias Cocteau – l’alternativa trovata dalla modernità, oltre all’ironia di cui è soffuso tutto lo spettacolo, è costituita dai palliativi del sogno, dalla sua ‘riproducibilità tecnica’, dalla sua realizzazione artificiale indotta: l’oppio, e i suoi derivati. Così, vediamo Miles Davis ritornare sconfortato e solo a New York, avendo dovuto rinunciare al suo amore, dare in pegno la sua tromba e ‘farsi una pera’ gigante di eroina: il suo corpo – ‘fatto’, inerme e pesante – comincia a rotolare trasportato dal lento movimento del cubo, scorrendo in una lunga sequenza di scene, da un luogo all’altro della città – la stazione, una stanza, un ‘vicolo’ – in un movimento che trasporta il peso del suo corpo, impassibile, come una scopa che spazza una carta buttata sul marciapiede, come ci trasporta in avanti la storia, la vita, l’inerzia di un movimento che passa sulle cose e le rende estranee. Mentre l’oppio, afferma l’attore, mostra le sue meraviglie e ti fa sentire familiare ciò che vi è attorno. “Tutto ciò che facciamo, compreso l’amore, lo facciamo su un treno che corre verso la morte: l’oppio ti fa scendere dal treno!”.
L’unica salvezza possibile, dunque, provare a scendere da quel treno e cavare dal fondo di dolore l’espressione della propria voce, come un’improvvisazione jazz affidata a una tromba. E allora, si chiede perplesso Robert in scena: “Come si fa a sublimare il dolore quando non si è Miles Davis o Jean Cocteau?”.

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Les aiguilles et l’opium
testo e regia Robert Lepage
con Marc Labrèche, Wellesley Robertson III
scenografia Carl Fillion
accessori Claudia Gendreau
musica e ideazione sonora Jean-Sébastien Còté
luci Bruno Matte
costumi François St-Aubin
immagini Lionel Arnould
producer
Michel Bernatchez
associate production Europe, Japan
Richard Castelli – Epidemic
produzione
Ex machina
in coproduzione con Théâtre du Trident/Québec, Canadian Stage/Toronto, Théâtre du Nouveau Monde/Montréal, Adelaide Festival, Le Grand T Théâtre de Loire-Atlantique, Les Quinconces- L'Espal Scène Conventionnée Théâtres du Mans, Célestins Théâtre de Lyon, Le Volcan – Scene National du Havre, Festival de Otoño a Primavera/Madrid, Artsemerson, The World on Stage/Boston, NAC English Theatre with Le Théâtre Français du CNA and The Magnetic North Theatre Festival, IG Arts Center/Seoul, Setagaya Public Theatre/Tokyo, The Barbarican/London
paese Canada
lingua inglese con sottotitoli in italiano
durata 1h 35’
Napoli, Teatro Politeama, 29 giugno 2016
in scena 29 e 30 giugno 2016

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