“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 12 February 2016 00:00

"Come diventare se stessi": metavisione che assolve dal peccato

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Dall'11 febbraio è nelle sale italiane The End of the Tour – Un viaggio con David Foster Wallace, uno dei film più attesi (e temuti) dell'anno. Diretto da James Ponsoldt, consiste nella trasposizione cinematografica del libro di David Lipsky (Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta), uscito nel 2010, in cui lo scrittore – che all’epoca scriveva per Rolling Stone – trascrive fedelmente il materiale delle interviste a David Foster Wallace, registrate nel 1996, alla fine del tour promozionale di Infinite Jest.

Le attese innescate da The End of the Tour – film 'per tutti' e rivolto 'a tutti' – si diversificano in base alla tipologia di pubblico; è sostanzialmente possibile individuare due principali forme di 'attesa'. Da una parte quella dei neofiti curiosi, bersagliati dai vari canali dell'informazione – social inclusi – da contrastanti notizie e citazioni relative alla fama/genio/sopravvalutazione/sottovalutazione/umanità/egocentrismo/presunzione/umiltà, di questo strano personaggio del mondo della letteratura, capace di assurgere – più o meno contro la propria volontà – ad icona generazionale. Dall'altra c'è quella dei lettori – di Wallace – che probabilmente hanno anche letto il libro di Lipsky, e molto probabilmente sono stati 'spiazzati' da questa prima iniziativa cinematografica, di fronte alla quale non sanno bene quale atteggiamento adottare.
Il fatto è che, chi lo ha letto, sa dell'ossessione di Wallace nei confronti dei pericoli della spettazione e della fama, del suo impegno a superare e trascendere ogni subdola forma di egocentrismo. Durante la sua ascesa come autore di culto ha continuato a combattere una personale e quotidiana battaglia per non perdere neanche un briciolo della sua integrità: "La mia croce è capire come amare il lettore senza credere che la mia arte o il mio valore dipendano esclusivamente dal suo amore per me. In astratto è semplicissimo. Nella pratica è una cazzo di guerra quotidiana".
La sua ritrosia verso la televisione e la prospettiva di diventarne un 'personaggio', sono ben note ai suoi lettori, come la determinazione a "restare al di qua dello schermo", a non varcare le cupe frontiere della tele-promozione-celebrativa. Quando una produzione cinematografica iniziò ad interessarsi ad Infinite Jest, disse: "Gli scrittori seri non cedono la propria opera al cinema", viene quindi da pensare a come avrebbe reagito dinnanzi alla proposta di cedere non la sua 'opera', bensì la sua stessa 'immagine'. C'è anche da dire che la stessa intervista rilasciata a Lipsky è il frutto di un compromesso tra la volontà dello scrittore (esporsi ed esibirsi il meno possibile) e quella della casa editrice; come scrive D.T. Max, il tour di presentazioni del libro (Infinite Jest) fu oggetto di serrate trattative con la Little Brown e in quella sede, David, ha dovuto acconsentire all'intervista con Rolling Stone; in una lettera a DeLillo spiega "Ho obiettato (con persuasione, credo) che Rolling Stone in sostanza è come la TV".
Da qui il disagio, degli spettatori/lettori, disagio che tuttavia non impedirà la visione del film; perché se per Wallace "gli scrittori tendono a essere una razza di guardoni" (E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione), i lettori lo sono enormemente di più, specie quando si tratta di un autore capace di toccare i più intimi precordi e di assolvere "alla funzione vitale e in via di estinzione di ricordarci le potenzialità illimitate che la narrativa ha di toccare con mano, di far palpitare le teste come cuori e di consacrare i matrimoni tra cerebrazione & emozione, astrazione & vita vissuta, ricerca della verità trascendente & arrancare quotidiano". (Il plenum vuoto: Wittgenstein's Mistress di David Markson).
Nonostante la diffidenza – non solo iniziale – in quei cinque giorni di intervista David e Lipsky hanno stabilito una certa sintonia che ha consentito di far emergere aspetti di Wallace ancora sconosciuti, ed è intorno a questi frammenti di autenticità 'rubata' che si sviluppa il film, sulle paure di un essere umano che tiene moltissimo alla propria umanità: paura di perdere tra le spire del successo pezzi di sé, delle solitudini esistenziali, difficoltà nello stabilire autentici rapporti con autentici esseri umani, mali dell'anima semplicisticamente definiti 'depressione', in definitiva si tratta del difficile percorso per riuscire a trovarsi e 'diventare sé stessi', senza perdersi.
Nel film, una delle cose che chiede David al suo intervistatore prima di cominciare è che "qualsiasi cosa ti dica, se cinque minuti dopo io ti chiedo di non metterla nel pezzo, tu non ce la metti", perché "dato il mio attuale livello di stanchezza e di incasinamento è l'unico modo in cui io posso fare tutto questo senza impazzire". Detestando di essere osservato e registrato, David passa i primi due giorni in una duplice modalità, ON-quando il registratore è spento, OFF-appena il nastro prende a girare e a registrare rapacemente. Superata questa fare iniziale i due si rilassano e i ruoli si sovrappongono fino a confondersi, David è sempre più interessato a quell'essere umano che ha il compito di intervistarlo e cerca di immedesimarsi in lui, in quello che sta provando e nelle difficoltà emotive che sta cercando di superare – gli scrittori per loro vocazione "sono davvero dei guardoni" – e il punto di vista che preferisce è sempre quello dell'osservatore, non quello dell'osservato; dice che gli piacerebbe molto scrivere un articolo su un qualcuno che deve scrivere un qualcosa su qualcun altro, sono entrambi spaventati, e il più terrorizzato dei due David – Wallace – tenta di rassicurare l'altro: "La sfangheremo insieme".
Jason Segel nel ruolo di Wallace e Jesse Eisenberg in quello di Lipsky sono incredibilmente bravi e convincenti, i personaggi interpretati non sono delle caricature e creano l'illusione di assistere a un qualcosa di terribilmente vero e autentico. In quel viaggio, carico di odori di tabacco da masticare, bibite gassate e fumo, Lipsky dice di aver avuto la conversazione più bella della sua vita; vivere quei giorni insieme a David gli ha fatto ricordare di cos'è fatta la vita, invece di offrigliene un consolante surrogato. Posso dire sinceramente che aver visto questo film, dopo aver letto tutto quello che c'era da leggere di Wallace e su Wallace, non mi ha dato la sensazione di ricevere un 'consolante surrogato', ma di assistere a un qualcosa per cui valeva la pena mettere da parte ogni possibile disagio voyeuristico.

 

 

 

 

The End of the Tour - Un viaggio con David Foster Wallace
regia James Ponsoldt
con Jason Segel, Jesse Eisenberg, Ron Livingston, Mamie Gummer, Mickey Summer, Lindsey Elizabeth, Anna Chlumsky, Joan Cusack, Becky Ann Baker
soggetto David Lipsky (Come diventare se stessi)
sceneggiatura Donald Margulies, David Lipsky
produttori David Kanter, Matt DeRoss, James Dahl, Luoise Lovegrove, Mark C. Manuel, Ted O'Neal
fotografia Jacob Ihre
musiche Danny Elfman
paese USA
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2015
durata 105 min.

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