“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 05 October 2015 00:00

Cronaca di un evento mutilato

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"È qui infatti, nelle liti di cortile, che l’odio umano si raffina e si esalta fino a raggiungere vette inseparabili, diventa un assoluto. È l’odio puro: astratto, disincantato, disinteressato; quello che muove l’universo, e che sopravvive a tutto".
(Sebastiano Vassalli, La Chimera)

 

Bianca è una curatrice, esperta di botanica.
Ama un uomo, che però è già sposato. Colpito da una grave febbre, questi si rifugia da lei, sua amante, affinché si prenda cura di lui. L’uomo purtroppo muore tra le braccia di Bianca, che prende a correre per i vicoli del suo quartiere in cerca di aiuto.
Viene invece acciuffata dai suoi compaesani e trascinata dal parroco, con l’accusa di essere una “ianara”.
Una strega.
Inizia così Processo ad una strega, di Annamaria Russo, andato in scena tra le mura del Maschio Angioino di Napoli.

Il cortile, che ospitava circa quattrocento spettatori, è stato occupato sul fondo, alla destra della maestosa scalinata, da un palco sopraelevato – da cui l’ensemble strumentale e vocale di Musica Reservata Napoli ha eseguito brani rinascimentali e un brano di Monteverdi (Sì dolce è il tormento) –  mentre le sedute erano disposte ad “U” attorno ad una lunga pedana dotata di gradini. Il resto del cortile, in fondo a destra, era invece lasciato libero.
Ad esser sinceri, questa disposizione non ha dal principio trovato il mio favore, sebbene fossi in prima fila, disposta parallelamente alla pedana.
Si è pensato inoltre di frammentare la narrazione in punti specifici del cortile, purtroppo non sempre a favore di pubblico – la scelta avrebbe avuto altrimenti il suo fascino. Di questo, però, parlerò approfonditamente in seguito.
Bianca (Marianita Carfora) viene – nella zona del cortile sì libera, ma che dà le spalle ad una fetta di pubblico – inseguita ed accerchiata da una torma di uomini (figuranti, capitanati da Sergio Del Prete) che la ricoprono dei peggiori insulti, per poi condurla nella zona antistante il palco sopraelevato, nei pressi della pedana.
Un uomo pio e buono è morto, per mano della strega che gli ha fatto la malia – questa l’accusa collettiva che i popolani ripetono al pastor animae (Antonello Cossia) del gregge di un dio troppo spesso invocato per compiere il male.

"Ognuno badava a sé stesso e alle sue cose, nel Seicento, e per badare a tutti c'era solo Dio; avevano ben altre faccende a cui pensare, i Tribunali
dell'epoca!". (Sebastiano Vassalli, La Chimera)

Compare, come una lupa famelica, la moglie della presunta vittima (una splendida e carica Ramona Tripodi), che reca con sé un bicchiere colmo di decotto di erbe. L’accusa di Bianca è completa: veneficio.
Bianca, la pedana come un patibolo, viene interrogata dall’uomo di fede, in modo capzioso, fuorviante.
Se nega, afferma. Se afferma, nega.
Si trova all’impasse.
Il testo della Russo, ispirato ai processi di stregoneria della Sacra Inquisizione, ci mette di fronte ad uno dei periodi più blasfemi della storia dell’umanità, che potrebbe essere racchiuso in una frase di Francisco Goya : “Il sonno della ragione genera mostri”.
Ho citato abbondantemente Vassalli perché, ne La Chimera, protagonista è la giovane Antonia, soprannominata la strega di Zardino.
Come Antonia, Bianca viene condannata non in quanto ritenuta responsabile di atti sacrileghi, ma poiché donna che ama oltre il compromesso. Se Antonia non ha il moroso a Zardino, ma si concede ad un camminante girovago e truffaldino – un forestiero, dunque, la colpa di Bianca è di essere madre fuor di vincolo matrimoniale e di amare un uomo a sua volta perdutamente innamorato di lei.
Di Antonia si diceva che fosse crudele coi figli delle popolane, perché li rifiutava, di Bianca che “scippasse”, affatturandoli, gli uomini alle brave donne sposate (sebbene ci fosse stata solo la liaison di cui sopra).
Quella che emerge è una frattura tra sorelle: il timor dei rende prone alle etichette, ai grembiali da brava moglie e condanna come “innaturale” la pulsione carnale e, con essa, l’amore non istituzionalizzato.
Il ruolo che la strega ebbe a cavallo tra ‘500 e ‘600 fu quello di spauracchio, di farmakon*, demonizzazione delle pulsioni erotiche da sottomettere perché, con la Controriforma*, bisognava essere “più cattolici”, senza errori di sorta, eliminando tutte le tentazioni.
Il celibato, obbligatorio per i preti cattolici, andava rigorosamente rispettato. Il popolo doveva rispettare l’ortoprassi religiosa – tra i tanti “obblighi”, quello di praticare il rosario – e il ruolo sacerdotale, pastor animae, che raggiunse in quegli anni l’egemonia.
"Dopo Trento, la chiesa cattolica consolidò una coscienza collettiva mediante l'eliminazione delle incertezze dogmatiche e l'affermazione del principio della cura animarum come suo compito specifico, delegato al ceto sacerdotale. Ne derivò un processo di "clericalizzazione"; una forte attenzione si incentrò sulla figura e sulle funzioni del sacerdote" (D. Menozzi – G. Filoramo, L'età Moderna, in Storia del Cristianesimo, p. 202).
Persino la musica, al di fuori delle mura della chiesa, fu vietata. Al Tribunale della Sacra Inquisizione spettava invece un’opera di bonifica non solo del clero, ma anche del popolo, in difesa della “Santa Chiesa”. Ogni propaggine del paganesimo e di tutto ciò che non si potesse spiegare con le regole della Chiesa, andava distrutto.
Si procedette alla totale distruzione/sostituzione di templi pagani con luoghi di culto istituzionalizzati, si vietarono astrologia, divinazione, l’uso delle erbe e persino dei profumi.
In un clima simile, le prime vittime furono sicuramente le donne. Anche quelle che vivevano di tollerato meretricio (spesso visitate dagli “uomini di fede”) furono arrestate e obbligate a pentirsi.
Figurarsi dunque una Bianca, erborista, madre “single”, amante di un uomo ammogliato.
Le falle giuridiche ed etiche dell’Inquisizione permettevano di dare corpo alle peggiori fandonie, rendendo possibile condannare come strega una donna solo perché bella, perché magari aveva rifiutato un corteggiatore, per inimicizie tra famiglie e ogni altra assurda motivazione poiché spesso bastava solo una brutta nomea o un testimone per formulare un’accusa.
Come per Bianca, che sfila, sulla meravigliosa scalinata del Maschio Angioino, scortata da una lunga processione – uno dei momenti più suggestivi dello spettacolo, guidata dal parroco locale, sino allo scranno dell’inquisitore.
Comincia il processo.
Il racconto di Bianca si fa doloroso. Parla d’amore. Le rispondono che il suo è meretricio. Parla di una figlia, le si dice che è figlia del peccato.
“Ma si può mai dire che l’amore è peccato?” – chiede lei, disperata.
Dopo la deposizione delle testimonianze, tutte a suo sfavore, l’ultima, di un amico.
Un amico che viene messo in difficoltà e ritira vigliaccamente la sua testimonianza.
Tradita, abbandonata persino dalle persone cui aveva fatto solo del bene, la presunta strega viene torturata.
Le torture della Sacra Inquisizione erano così atroci che la torturata confessava di essere colpevole, pur di interrompere il supplizio.
Chi invece avesse provato a resistere, veniva dichiarata come strega perché la sua forza si supponeva dovuta a patti demoniaci.
Si era condannate, in maniera irredimibile.
La stessa sorte tocca a Bianca che, dopo aver capito che prossima era la sua fine che con nessuna argomentazione avrebbe potuto salvarsi, confessa.
È in questo punto che ho apprezzato maggiormente la scrittura della Russo, che sottolinea l’illogicità, l’assurdità di quanto stia avvenendo: l’accusata asseconda il frate inquisitore, risponde alle sue domande con conferme. Si costringe ad inventare formule malefiche – e tutto questo tentare disperato pur di non tornare nella camera delle torture viene reso noto al pubblico tramite degli a parte – e a descrivere riti sabbatici di cui non sa assolutamente nulla.
Si degrada, si finge folle. Si umilia.
Però, poi, quando le viene chiesto se nel paese ci sono altre streghe come lei, il tempo si sospende.
L’attrice fa in scena un lungo silenzio. Bianca medita. Potrebbe vendicarsi delle donne che l’hanno condannata a morire. Potrebbe trascinare nel fuoco della disperazione la moglie o la figlia di uno dei suoi compaesani.
Sceglie invece di non farlo. Parla bene delle donne presenti. Le redime agli occhi dell’inquisitore.
La strega, spauracchio, pharmakon, capro espiatorio, redime. Salva.
Mentre la conducono alla pira e i paesani le puntano contro le fiaccole.
“Me mecc’ scuorne ij ppe’ ddio!”* – urla, esasperata, un’innocente.

Commenti tecnici e altri commenti avulsi dallo spettacolo
Lo spettacolo, nella rappresentazione di sabato 19 Settembre, non è andato come ce lo si sarebbe aspettato. Se fossi stata un collaboratore di una rivista non campana, recatosi appositamente a Napoli per assistere ad una pièce in luogo suggestivo quale il Maschio Angioino, forse me ne sarei andato con una cattiva idea di Napoli e delle manifestazioni che la città ospita.
La sensazione che avrei avuto sarebbe stata quella di “margaritas ante porcios”, di un sottovalutare la responsabilità che proporsi in una simile struttura comporta, sia per l’organizzazione che per le compagnie da lei scelte. Tuttavia, prima di recensire, ho preferito contattare personalmente la regista Annamaria Russo pochi giorni dopo lo spettacolo, per confrontarmi e cercare di fare chiarezza su quanto in realtà avvenuto.
Il perché di questa mia scelta è dovuta al fatto che, a spettacolo finito, avevo notato una serie di difficoltà più tecniche – dovute al service – che di recitazione. Avvicinandomi al palco per conoscere il nome del gruppo musicale, io e il mio accompagnatore abbiamo notato un malcontento generale. Non mi trovavo in presenza di un post-spettacolo tipico. Il giorno dopo, poi, Il Pozzo e Il Pendolo pubblica sulla sua pagina Facebook delle scuse ufficiali agli spettatori, offrendo un biglietto gratuito ai presenti per una loro prossima rappresentazione in formula di risarcimento.
Giungono tempestive le scuse dell'Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli al Pozzo e Il Pendolo.
“La lunga estate napoletana è stata animata da un ricchissimo calendario di eventi in luoghi monumentali suggestivi quanto complessi da gestire tecnicamente. La manifestazione è stata realizzata con successo. Purtroppo lo spettacolo di sabato 19 settembre al Maschio Angioino ha rilevato particolari difficoltà. L'Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli si unisce a Il pozzo e il pendolo teatro nelle scuse al pubblico intervenuto a Processo a una strega. Disguidi tecnici hanno compromesso il buon esito dello spettacolo realizzato da un gruppo eccellente di professionisti con i quali è da sempre un piacere collaborare. Ci stiamo attivando, di comune accordo con gli organizzatori, per trovare una soluzione da offrire al pubblico pagante presente alla serata”.
A questo messaggio, l’associazione culturale risponde così:
“Condividiamo e ringraziamo l'Assessorato alla Cultura e tutto lo staff di Estate a Napoli per questo attestato di solidarietà e per la disponibilità a sostenerci nelle doverose scuse al pubblico presente al Maschio Angioino la sera del 19 settembre”.
Davanti ad una situazione simile ho creduto sarebbe stato preferibile un altro approccio alla situazione; magari uno di quelli che avrebbe permesso una comunicazione altra tra le figure – sebbene quelle come la mia abbiano un mero ruolo satellitare – che ruotano attorno ad uno spettacolo.
È stato un confronto formativo, che rende possibile una comprensione diversa di tutti quei meccanismi che a monte riescano a pregiudicare il buon esito di un lavoro dignitoso. Durante lo spettacolo, gli attori si sono ritrovati privi del supporto audio (microfoni e amplificatori), costretti quindi a recitare a voce piena pur di farsi sentire dal pubblico nell’ampio cortile del Maschio, puntando di più sui volumi che sulle sfumature con cui impreziosire le interpretazioni.
Oltre a questo, apprendo dalla regista che a mancare era persino un adeguato corredo per il disegno luci e che, qualora avessero funzionato, gli archetti forniti dall’organizzazione non sarebbero comunque stati adeguati alle esigenze degli attori.
“Avete sentito quello che dovevano dire gli attori, ma non come lo avrebbero invece dovuto dire se fossero stati messi nelle condizioni di lavorare serenamente”.
Per quanto riguarda invece la disposizione dei posti, per quanto sia stato interessante il tentativo di “spargere” la narrazione per tutta l’area del cortile del Maschio Angioino, sarebbe stato preferibile, nonché necessario, uno studio diverso della sua planigrafia. Sono sicura, ad esempio, che non tutti i presenti abbiano notato, sul finire dello spettacolo, una ragazza di vestita di bianco – la figlia di Bianca, allegoria di uno spirito femminile innocente e benevolo – discendere le scale laterali, essendo concentrata in tutt’altro luogo la pira allestita per la strega. Presso quest’ultima, alla destra del palco sopraelevato, si è svolto il finale della rappresentazione, difficile da apprezzare, per la parte di pubblico che si trovava alle spalle degli attori.
“La messa in sicurezza della pira, al centro della pedana, non è stata possibile a causa dell’assenza dei Vigili del Fuoco, la quale cosa ha costretto, a poche ore dallo spettacolo, ad organizzare il finale lontano dal pubblico. Una parte del pubblico si sarebbe trovata di spalle alla scena conclusiva, dove si dava fuoco alla strega, ma mancando le condizioni di adeguata sicurezza si è preferito il male minore” – mi spiega Annamaria Russo.
Sbagliarsi è importante. Una scelta che mi era sembrata sbagliata ed illogica, non sapendo la verità che c’era dietro, mi è apparsa quindi sensata.

Lo spettacolo, le amarezze e una Napoli da far sorridere
Se non avessi avuto i miei buoni scrupoli e se fossi stata un “critico arrogante”, avrei sicuramente scritto ben altra recensione, limitandomi a contemplare la vicenda dall’esterno. Invece credo che accadimenti simili possano essere delle belle lezioni, per noi tutti.
Per chi organizza eventi di simile portata in luoghi storici, perché sta sfruttando un’ottima cartolina e deve fare in modo tale che tutto rasenti la perfezione. Per le compagnie o gli artisti che collaborano con questo tipo di iniziative, perché imparano a fare fronte a difficoltà che non dipendono dal loro impegno o dalla loro bravura – e in questo caso trovo sia stata grandiosa la signorilità de Il Pozzo e il Pendolo. Per chi, come me, si occupa di raccontare a chi non c’era come è stato, ma per questo non deve sentirsi un dio.
Ogni volta che ci approcciamo a dare un giudizio, dovremmo mettere da parte la pretesa – a parte quella di avere un buon posto in platea, altrimenti non siamo messi nelle condizioni adeguate per lavorare – che ciò cui assistiamo debba forzatamente compiacerci, dimenticandoci che dietro queste performance ci sono delle persone con il loro lavoro e i loro sogni e che anche loro soffrono quando le cose non vanno per il meglio.
Però, dopo l’intossicata, c’è solo da sorridere, perché si è riempito un luogo storico – e se magari un giorno si potesse pensare a riempirlo con un biglietto unico che comprenda visita guidata e spettacolo? – si è visto come una compagnia che si occupa di uno dei mestieri più belli e difficili del mondo ci tenga a non deludere il suo pubblico e ne abbia profondo rispetto, ho avuto modo di approcciarmi in modo costruttivo con la regista, raccontandole francamente come ho vissuto io il mio disagio, lei mi ha raccontato il suo, del suo pianto, dell’amarezza degli attori, della Carfora che è rimasta senza voce per tre giorni pur di coprire vocalmente tutta la platea. Capisci la dimensione dal sacrificio e speri, in cuor tuo, di farla capire anche a chi ti legge.
Ah, e poi il mio accompagnatore si è deliziato con una delle migliori pizze fritte a pochi passi dal San Carlo.
Che dire, Napoli bellissima, ma se ci impegniamo per comprenderci e andare avanti, migliorandoci, lo sarà ancor di più.

 

Note:
*nell’accezione di “capro espiatorio”.
*si intende quivi Controriforma Cattolica, atto difensivo della Chiesa Cattolica contro la Riforma Protestante, che andava acquisendo sempre un numero maggiore di proseliti.
*dialetto napoletano, trad.: "Provo vergogna io per dio!".

 

 

Processo ad una strega
di
Annamaria Russo
con Marianita Carfora, Antonello Cossia, Sergio Del Prete, Andrea De Rosa, Bruno Minotti, Ramona Tripodi
e con Ensemble strumentale e vocale Musica Reservata
figuranti Adriana D’Agostino, Flavia Carenne, Annalisa Ciriello, Sandro Calenda, Crisianan D’Amore, Carlo Gambardella, Giuseppe Maria Serio, Alessandro Mastroserio, Camilla Russo, Serena Sammarone, Sabrina Silvestri, Bruno Staffelli, Fabio Todisco
assistente di scena Michela Ascione
costumi Antonietta Rendina
disegno luci Amedeo Carpentieri
foto di scena Giancarlo de Luca
lingua italiano, napoletano
Napoli, cortile del Maschio Angioino, 19 settembre 2015
in scena 19 settembre 2015 (data unica)

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