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Sunday, 12 July 2015 00:00

Caso e istinto in uno spazio mentale: "Forza maggiore"

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  "Il cielo è uno scudo d'argento contro colui che gli chiede soccorso".
                                                  (Franz Kafka, Il cavaliere del secchio)

 

 

1. In uno spazio mentale
La vicenda di Forza maggiore (2014, di Ruben Östlund) si svolge in una sorta di luogo alieno e lontano, un microcosmo formato dal residence e dalla stazione sciistica nel quale la famiglia si reca all’inizio del film. Si tratta di un luogo isolato, dominato da una greve atmosfera meccanica e contemporaneamente ‘mentale’, come una sorta di castello kafkiano che lentamente divora le menti dei personaggi.

Se la stazione orbitante di Solaris (1972, di Andrej Tarkovskij) faceva vedere ai personaggi simulacri di realtà, sembra che lo spazio meccanico e mentale della stazione sciistica faccia vedere, invece, la realtà per come essa è: un fragile connubio di fragili spiriti, di emozioni, di affetti, di vincoli pronti però a sgretolarsi come la valanga che incombe sugli ospiti del residence. Quest’ultimo appare una vera e propria fortezza circondata dalle nevi e da alte montagne, in un paesaggio che riecheggia quello di un altro racconto di Kafka, Il cavaliere del secchio. La fortezza è uno scrigno argentato in cui a dominare sono suoni meccanici e ripetuti, come gli scoppi che sentiamo di notte, le luci artificiali che lampeggiano sulle vie innevate, l’oggetto volante che emette un cupo sibilo e che vediamo volteggiare nella notte intorno alla finestra dei protagonisti: in realtà un modellino di drone col quale gioca il personaggio del padre che volteggerà anche in un interno, colpendo un altro personaggio. I protagonisti e gli altri turisti appaiono quindi prigionieri di uno spazio meccanico e mentale: laddove i congegni e le cabine che conducono alle piste da sci divengono inquietanti mostri meccanici che emettono cupi e perturbanti suoni e dove il bianco della neve e i venti congelati creano un ambiente amniotico e regressivo, dominato dal perturbamento di un nuovo ritorno uterino verso il grande Rimosso, una coscienza greve che diviene materia plastica e pesante come gli interni di legno dell’hotel. Quest’ultimo, come l’Overlook Hotel di Shining (1980, di Stanley Kubrick) delinea forme mostruose e spettrali, puramente mentali e appartenenti al regno della coscienza. È da quest’ultima che il grande Spettro, il Castello luminescente e terrifico che si erge nella notte come un possente Signore altalenante nelle luminose e iridescenti note dell’Inverno di Vivaldi, colpisce gli incauti protagonisti. Nel caos meccanico del bianco uterino i rapporti consueti e quotidiani si sfaldano in drammi e angosce trattenute in larvali pose teatrali che ricordano certi momenti del cinema di Bergman; il grido, l’angoscia, l’orrore per la propria esistenza erompe ma sempre viene trattenuto da una qualche consistenza metallica e pesante che tiene inchiodata ogni eruzione lavica della stessa coscienza.
E nelle scene finali i turisti percorrono a piedi lo scenario desolato immerso fra le montagne ghiacciate come tanti sopravvissuti ad un disastro apocalittico; come in una scena di Il tempo dei lupi (2003, di Michael Haneke), i personaggi si muovono lungo il sentiero forti della nuova presa di coscienza con la realtà, granitica come i sassi della stretta strada, come i muriccioli di pietra che la lambiscono, come la neve divenuta ghiaccio. Nel loro incedere, essi somigliano a tanti cavalieri dell’irreale, esercito di sopravvissuti dall'apocalisse di un mondo fatto di menzogne e cavillosi rapporti. Il bianco uterino sembra essersi squarciato e bisogna riprendersi le proprie responsabilità: sul pullman rimane soltanto la donna che aveva scelto una vita senza responsabilità, in un continuo gioco di false libertà fra lei e il marito, fra lei i numerosi amanti. L’incedere quasi picaresco e senza fine dei personaggi a piedi conduce forse a nuovi momenti dopo l’apocalisse, verso un nuovo spazio mentale e reale dove, finalmente, una volta passate le deflagrazioni e le distruzioni, ricomporre e ricostruire nuove esistenze ormai più non gravate da meccaniche e mentali zavorre.

2. Il caso e l'istinto
Esistono azioni e situazioni 'limite' ingiudicabili: sono quelle in cui qualsiasi decisione non è processabile moralmente e non è possibile guardarle col senno della morale, poiché si collocano prima dell'intervento del pensiero e della ragione e fuori da una categorizzazione di pensiero.
Il film dà da riflettere sulla possibilità di un affetto, o un amore, dal momento che esiste una belva, l'istinto cieco che non sa calcolare in morale, che a volte provoca il rovesciamento egoistico di ogni relazione. Annullato da tale belva, l'amore sarebbe un automatismo che funziona solamente se inserito in un ambiente esente da ogni pericolo di vita, non in ogni circostanza ed in qualsiasi momento della vita. Ma proprio chi pensa in questa maniera, progettando di rompere il matrimonio, ovverosia la moglie dell'uomo che ha manifestato la bestia, non sa che in altre circostanze di pericolo della propria vita chiamerà aiuto e ignorerà di riceverlo da chi, se non fosse riuscito nell'impresa di salvarla, avrebbe causato non solo la propria morte ma anche quella dei figli. E allora, cosa significa tutto questo? Che l'istinto si comporta come il caso, che è anteriore alle leggi morali, al pensiero, che non è determinato dalle leggi di autoconservazione. Va bene oggi, ci salva a vita, mentre il giorno prima ci avrebbe mandati tutti  all'altro mondo potendo salvare solo la propria persona e non altre, e domani che cosa farà? È caduta una valanga, è scesa la nebbia. Ci sono forze superiori a noi. Sono superiori nel senso che di fronte ad esse scompare l'uomo civile e razionale e subentra l'istinto che agisce senza calcolare la giustezza delle proprie azioni. Un'azione senza pensiero sulle conseguenze nel bene e nel male, un primordiale “faccio così perché sono mosso, sono determinato a fare così, non sarebbe certo mia intenzione fare morire i figli o scegliere la vita di mia moglie sopra quella dei figli o causare la morte di tutti quanti, anzi potrei fare diversamente ma intraprendo questa strada il cui esito porterebbe a posteriori a essere giudicato da vigliacco dato che ho lasciato in pericolo di vita i figli per salvare mia moglie”. Forse l'istinto crede di sapere cosa è meglio? Non riusciamo a comprenderlo con la semplice ragione. È inutile indagare cosa fa. Nel film, l'istinto almeno una volta sceglie per il meglio, ma si vede bene che è un caso.
Abbiamo nella nostra esistenza due tipi di caso: il caso comunemente concepito e l'istinto, che è al di là del bene o del male. E la sua funzione primaria non sarebbe la conservazione della propria vita, o la sua protezione. Avrei potuto egualmente non farlo, come farlo. Cosa determina nella scelta della possibilità è al di fuori del sapere. La belva può divorare, ma ad un certo punto può diventare un eroe, e ciò non dipende dalla persona che siamo. Siamo eroi a posteriori, quando siamo riusciti a salvare qualcuno, altrimenti abbiamo fatto il nostro dovere morale oppure siamo stati dei vigliacchi. E cioè siamo eroi solo quando l'esito della nostra azione è positivo, e questo non si potrebbe mai dire prima, tranne in rari casi. Allora sarebbe meglio forse ammettere che non esistono eroismi, esistono al massimo solo vigliaccherie, giustificabili se si considera quell'istinto determinato dall'autoconservazione. In questo modo tutto quadra nel pensiero e siamo tranquilli. Ma il film dimostra che non è così, mostra l'importanza di questa categoria del caso.
Andiamo avanti verso casa intanto, dice il film. Salviamo le cose sicure che abbiamo.

 

 

 

 

Forza maggiore (Force Majeure)
regia
Ruben Östlund
sceneggiatura Ruben Östlund
con Johannes Kuhnke, Lisa Loven Kongsli, Clara Wettergren, Vincent Wettergren, Brady Corbet, Kristofer Hivju, Fanni Metelius, Karin Myrenberg
produzione Platform Produktion
distribuzione Teodora Film
paese Svezia, Norvegia, Danimarca, Francia
lingua originale svedese, inglese
colore a colori
anno 2014
durata 118 min.



 

 

 

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