“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 10 July 2015 00:00

Appunti su "Opera pezzentella"

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Premessa
Opera pezzentella torna dopo un anno; torna dopo il pieno del pubblico, gli applausi convinti, le recensioni entusiastiche. Torna dopo i premi assegnati al suo autore, dopo gli elogi fatti ai suoi interpreti, torna dopo il giusto riconoscimento ricevuto dallo Stabile di Napoli che s’è accorto del patrimonio di parole e visioni che questo spettacolo rappresenta, decidendo così di produrlo. Di Opera pezzentella, adesso che è passato il tempo dell'urgenza valutativa e della fretta cronachistica, provo a mettere in risalto alcuni aspetti, certe caratteristiche che mi sembrano fondanti.


La liminità e il teatro
La prima sensazione è che Mimmo Borrelli abbia fatto un patto con la morte: ti celebro ma, in cambio, tu mi cedi alcune delle anime che ti appartengono perché possano essere viste da chi assisterà allo spettacolo. È un patto possibile poiché è la morte che rende viva la Chiesa del Purgatorio ad Arco: i resti ossei, i crani, gli ex voto, l’edicole, le loggette di ceramica, gli altari, le foto ingiallite, le lapidi, i fiori freschi e i fiori finti, le fosse, la breve o lunga spianata di terreno sono ad un tempo segno che rimane di ciò che non è rimasto, avanzo, simbolo di oblio e memoria che perdura, devozione odierna, atto ancora quotidiano. D’altronde questo incremento alla vita grazie a chi è già defunto viene testimoniato dalla credenza dello scambio per cui mondano e oltremondano si incontrano, si fondono, si mettono in contatto: io ti prego, tu mi fai la grazia; io ti faccio la grazia, tu continui a pregarmi permettendomi il “renfrisco”.
Riflettere su Opera pezzentella per me significa innanzitutto riflettere su questa vivificazione del passato che – scenicamente – si traduce in una carnale realizzazione evocativa degli spiriti del luogo. Non a caso è il verbo “sorgere” (“Sorgi, sorgi, / ca manco t’accuorgi / della vita che mi porgi. / Pregami”) a dare inizio al testo; non a caso ascolto frasi come “I morti vogliono uscire dal fondo di ogni cranio / Senza confini, limiti, terre oltre demanio”, “Hanno bisogno ‘e piglià sciato ancora”, “Aneme e chivabbive scetateve a stu letargo”. Il ritorno irrelativo dei morti – per dirla con De Martino – genera un comune patto di sollievo, d’intrattenimento, di compresenza che fa di questo complesso monumentale la sede di una connessione: convivendo vita e morte convivono presente e passato, individualità defunta e collettività credente, memoria intima e ascolto pubblico. Si verifica quindi una coincidenza di opposizioni che fa di questo luogo un luogo liminare. Zona di confine o terra sconsacrata a ogni sicurezza – altra dal mondo umano solito quanto dall’aldilà che viene ipotizzato – “prende corpo”, scrive Stefano De Matteis in Antropologia delle anime in pena, “una particolare elaborazione della liminità” per cui “risiedono nella chiesa del Purgatorio coloro che non appartengono più alla vita, di cui vediamo e tocchiamo i resti, ma che non sono del tutto morti” in quanto appartengono a questo spazio di passaggio che è “luogo dell’attesa e della speranza, un luogo molto simile alla vita”.
“Simile alla vita” scrive De Matteis; ebbene: cosa c’è di più simile alla vita se non il teatro? Specchio distorto e veritiero del reale, coniugazione al congiuntivo dell’indicativo di certezza, il teatro traduce artisticamente ciò che si realizza antropologicamente con il culto delle "capuzzelle" e la cura delle nicchie: “Una sorta di ritorno dei morti” in cui “memoria e azione diventano un tutt’uno”. D’altronde – tralasciando il dato ovvio che il Purgatorio è liminare tra Paradiso e Inferno – mi chiedo: non è di per sé il teatro un’occasione spazio-temporale liminare? Non appartiene e al tempo stesso sfugge alle norme consuete della realtà? Non professa verità con le bugie, non fa metafora ricollocativa e riformativa, non fa apparizione di scomparsi che tornano a farsi vedere per il tempo della recita?
“Pubblico testimonio, siete riusciti a entrare? / “Dunque sta cerimonia sta per cuminciare” dice l’Avierzeco demonio/Mimmo Borrelli e dice ancora – sul finale, quando tutto quel che doveva accadere è ormai accaduto – “Mò ghiate a ffa’ mmocca a chi v’è stramuorte, / dint’ ‘i muorte stramuorte ‘i chi ve sona stramuorte” (poiché il termine dello spettacolo consegna alla sparizione personaggi e pubblico) e così continua: “Amme fernute ‘i fa ll’opera r’ ‘i guappe e d’ ‘i pupe” (assegnandosi il ruolo di manovratore, di tessitore e tenitore dei fili che servono a ogni movenza). Così mi diverto a contare le volte in cui questa riapparizione di ciò che è “obliato, dimenticato, assopito” e che torna dall’ipogeo alla chiesa superiore, ne abita l’ingresso, si propone nella navata principale e attraversa i corridoi, sosta nei confessionali, s’accuccia tra le panche o gioca coi ritratti appesi alle pareti viene definito con espressioni teatralizzanti:

1 – “assemblea tribbale”
2 – “circo immaginario re pezzente”
3 – “messa agghiacciata in scena”
4 – “rito condiviso”
5 –“cerimonia laica”
6 – “messa oscena”
7 – “triatra”
8 – “’o dramma d’improvviso”
9 – “patetica triatrata”
10 – “sovrafforma d’eterna mistificazione”
11 – “manifestata o bugiarda suggestione”

Sicuramente me ne sono sfuggite molte altre, ma quel che conta è notare la consapevolezza metateatrale dell’autore e degli attori che dichiarano e mettono in atto una messinscena, unico vero modo per rendere il “corpo morto” un “mortale d’immortalità”. Se è vero che in Borrelli e nella sua drammaturgia chi ha vissuto torna spesso a vivere riportato a galla dalle onde, dalla filiale follia d’andamento circolare o dal ricordo criminale e accidentale che collega la stazione di Montesanto alla fermata Sepsa di Torregaveta, nel caso di Opera pezzentella questa resurrezione viene indotta, motivata, suggerita e determinata dallo stesso Purgatorio ad Arco, “luogo nodale, santuario della memoria collettiva, in cui” – spiega ancora De Matteis – “il frammento e la reliquia si trasformano in sub specie theatri”, piegando la concezione “del luogo secondo una metafora teatrale”. Insomma, Borrelli comprende che questo è un posto teatrale e genera il suo teatro ascoltando, assecondando e rafforzando la teatralità già in esso contenuta. Questa consapevolezza viene dichiarata più volte e in diversa maniera: “’Nfacimme sceneggiate / annanze a sta gente, ca sulo stanotte ode / e sentarrà li fiabe” dice ‘Nzamamorte ‘o salmaro mostrando di sapere della presenza del pubblico e dando alle tre spose un’indicazione di merito e di stile per il racconto; affermando che “Spesso a ogni capa veniv’associato un nome, / in un processo di divinizzazione: / nu ruolo, na qualità, na storia e nu nicchione” la Cummara ‘a ll’uocchie azzurre rivela come nasce un personaggio; “’Priparo, nicchie-panche, ‘nginocchiatoje, breviarie” è la battuta di un dialogo nel quale ‘o Siggettaro ghistemmatore allude all’allestimento scenografico; frasi come “È tempo, Salmà chisto è ‘o mumente” , “È il momento presente / di un’esistenza all’istante penitente”, “Poiché domani di certo sepolti moriamo” mi fa pensare alla durata momentanea d’ogni apparizione che avviene in palco mentre “Amare e stare con i morti non è necrofilia. / È racconto di vita e testimonianza: / di essere di esserci e così sia / di essere e di esserci nell’esistenza” dà il senso dello spettacolo e della presenza del suo pubblico. “Fidati e sarà estinto ogni tuo dubbio amletico” o “’Ncopp’ a stu parcuscenico de scenarie tarlate” sono citazioni che non fanno che confermare lo smascheramento consapevole dell’atto scenico, unica possibilità perché anime, personaggi e attori possano “trasì’ dint’a n’ata dimensione” che è “chella ca se chiamma po’ esistenza” e che ha per titolo Opera pezzentella.

La verticalità e la scena
Dove comincia Opera pezzentella? Rifletto e scrivo che – secondo me – comincia nell’unico luogo del Complesso che non vediamo: oltre l’ipogeo, lì dove ci sono nicchie e tombe. In quello spazio oltre scena gli attori si preparano, da quello spazio fuoriescono, in quello spazio poi finiscono a conclusione della recita. Nella parte estrema della chiesa, nei suoi abissi più lontani dunque. Collego questo pensiero a un momento dello spettacolo durante il quale mi dedico non a un dialogo – che si svolge nel mezzo della navata che ho d’avanti – ma all’Avierzeco/Borrelli che staziona invece sul balcone interno: guarda dall’alto in basso ciò che accade, come ne fosse il generatore e, al tempo stesso, subendo colpi e scosse, patemi e sensazioni, da quel che lui stesso ha generato.
Il fondo della chiesa, da cui tutto parte, e questo balcone dal quale “’U capezifero”, “Averzerio”,  “Capocuorno”, “Curnutaccio” domina lo spazio. Basso e alto, ipogeo e chiesa sovrastante, altare e sottoaltare, balcone e ultima fossa, Purgatorio e sue viscere inferiori, livello dell’apparizione e sublivello della sparizione. “Le anime del Purgatorio” – scrive De Matteis – “sono in basso e implorano l’alto; ma questa relazione alto/basso disegna un universo separato dove le profondità degli inferi non appaiono”. Gli inferi (o meglio: le parti ulteriormente inferiori del Purgatorio, lì dov’è sepolto chi è sepolto) sono l’altrove che non vediamo, sono il posto da cui Lucia viene (come fonte d’ispirazione) e a cui è destinata (come personaggio, cadavere, soggetto predestinato al funerale). Tant’è che Lucia prova la fuga esterna senza riuscire, si nasconde quando le anime fanno cunto e recitazione, trema e piange sottraendosi dal centro e tuttavia – ella stessa ne è cosciente – le tocca fare “un viaggio” ed è con questo viaggio che tutti noi (Borrelli e l’Arzieveco, gli attori e i personaggi, tutti gli spettatori) la “accumpagnamme ‘a casa” ovvero lì da dov’è giunta: la nicchia, ultima a sinistra, nel luogo più in fondo dell’intero Purgatorio ad Arco.
Ancora De Matteis: “Il mondo delle anime purganti diventa il mondo del sotto, mentre quello della Chiesa rappresenta il mondo del sopra. Il sotto è simbolicamente, architettonicamente e materialmente discesa verso il basso, immissione nelle grotte viscere. Solo una volta superata la soglia e immersi nei passaggi di comunicazione che portano all’ipogeo, possiamo entrare in contatto con la storia ed il passato”. E infatti la regia di Borrelli lascia accedere gli spettatori, genera un’evocazione preventiva (Antipurga) perché accada quel che deve accadere, introduce alla chiesa di sopra, lì dove l’invocazione primigenia ha portato le anime ad apparire (“S’arrevotano comme ‘e riscenzielle ‘e n’esorciseme” viene detto, descrivendo perfettamente i corpi che tremano lievitando dal pavimento, come venissero dal basso) e – dopo aver permesso ad ognuna d’esistere e parlare – conduce il pubblico al piano sottostante, spazio-fonte di ciò che s’è veduto. Così facendo non solo Opera pezzentella rispetta la stratificazione strutturale del luogo in cui va in scena ma la esalta coniugandola anche dal punto di vista cronometrico giacché ciò che è sotto è ante, prima, precedente: si ritorna lì da dove si viene, lì da dove tutto è cominciato. Il luogo e l’andamento che la regia vuole per lo spettacolo si fanno dunque materia temporale, cronologia di scarti e segnature che da un punto appare e in quello stesso punto poi scompare. “Proprietà dello spazio e modi di essere del tempo”, per usare le parole di Marino Niola: perfette per un’opera che vive di rovina ed emersione, profondità e congestione, frammentazione, istantaneità e ritorno alle origini primarie. Questa verticalità da sotto a sopra e più sopra ancora (il balcone da cui Borrelli guarda, spia, s’interessa, provoca, genera, segue e persegue i suoi obiettivi permettendo la messa in pratica di “racconti, preghiere, cute-cute”) mi sembra abbia almeno quattro ragioni.
La prima: il rispetto dantesco (“Cu cunzenzo divino ru fiorentino Dante”) della composizione purgatoriale, tant’è che ascolto molte battute che fanno riferimento allo scendere e salire: le anime “s’arrampecano alla scalella re lu Salvatore, / ma sciuljeano ‘mbaccia a li lastre comme ‘i maruzze”; “amma sagliere”, si afferma ancora, “tre scaline annante e quatto pone areto”; “le anime de lo Priato ‘e l’Arco r’ ‘o Priatorio” – viene anche detto – “nun ponn’esse scese dint’ ‘o sciammatorio” ma pure “vogliono andare in Paradiso”, definendo così l’eterna condizione mezzana di chi sta tra il cielo e il centro della terra, senza poter volare né cadere: “Je ca so sagliuta dint ‘o Priatorio pe scennere. / Je ca r’ ‘o Paraviso, so scesa per risalire” dice la Cummara ‘a ll’uocchie azzurre fondendo innalzamento e china, elevazione e crollo.
La seconda: Borrelli genera una partitura perfetta per il luogo, restituendone la natura elevata ed interrata a un tempo: chiesa che s’erge sul manto stradale; ossario infossato sotto la pavimentazione urbana: convivono – spiega Padre Crocco – “Na chiesa superiore ca rimandasse / al barocco a dimensione terrena / e una inferiore ca se ‘ntunasse / a n’ata dimensione purgatoriale e amena”. Presbiteriale sopra, spartana sotto; affrescata sopra, sbiadita sotto; decorata sopra; spoglia sotto; viva sopra, morta sotto.
La terza: Borrelli inscena il suo rapporto con gli attori. La verticalità di posizione che lo contraddistingue (la controposizione di conferma è nell’ultima scena, quando siede in opposizione a Lucia e alle altre anime, presso la parete di fondo dell’ipogeo) è la denotazione fisico-dinamica del suo ruolo: “Riavolo” d’un drammaturgo, dice “’a Parola r’ ‘a scrittura mi dannate se cumpirà”, dice “Je port ‘a luce, / ‘a luce r’ ‘a passione r’ ‘a carne r’ ‘a ciucie”, dice “Tutto ciò che è passione, sentimento, l’aggio criate je”. Borrelli è l’autore (superiore) di ciò che avviene in basso, ne è lo scrittore ed il regista, il parolaio e l’induttore ed è per questo che staziona in alto e in fondo (cioè prima, facendo dello spazio il tempo): “La felicità ‘e ve vede’ a cummanne / sott’ a me Riavolo”, “Siete già a li piedi miei” ed è esattamente quel che accade.
La quarta: Borrelli conferma con Opera pezzentella il rifiuto della frontalità scenica all’italiana. Ha la necessità di occupare l’edificio intero, di penetrarlo, di  usarlo ed abusarlo teatralmente cancellando la linea che separa normalmente un palco da una platea. Dove siamo noi spettatori? Tra cinque interpreti, durante il prologo; di lato quando le anime si confessano; ancora di lato durante le esequie del finale. Mai siamo portati alla chiarezza visiva e totalizzante dell’assito posto in avanti, mai ci è concesso di ottenere con lo sguardo tutto ciò che accade ed io stesso perdo molto nell’osservare quanto più è possibile giacché Opera pezzentella ha un andamento coreografico e recitativo basato sul sincretismo per cui mentre due attori guerreggiano dialogando a centro-navata un’attrice s’assopisce nel confessionale; mentre un attore parla ad un ritratto una giovane tende le braccia oltre una grata; mentre una trema, stando seduta tra le panche, un’altra sosta, ferma immobile, poggiandosi a un altare di marmo e pietra. Sopra e sotto e ovunque – in orizzontale – qualcosa sta accadendo così rendendo la contemporaneità del sovraffollamento penitente del Purgatorio e della sua chiesa, che è luogo d’ammasso, di similarità e d’accalcata convergenza, come spiega De Matteis: “La reciproca marginalità, per cui nessuna delle figure è protagonista in assoluto e per tutto il tempo, avvicina anime e devoti, elimina le distanze, spinge alla familiarizzazione e incita a tenere un rapporto coi morti come fossero vivi”.

Il flusso e la memoria
A Renato De Simone, che interpreta ‘o Siggettaro ghiastemmatore, ad ogni replica e sempre nello stesso momento capita di piangere una lacrima sola, dall’occhio sinistro. Le tre spose (Isabella Lubrano, Sara Scotti di Luzo, Sara Guardascione) assumono una forza che altrimenti non avrebbero dicendo le parole all’unisono; il tono di Enzo Gaito (‘Nzamamorte ‘o salmaro) diventa una possessione ritmica. Borrelli scrive battendo i suoi versi, contati sulle dita della mano destra, accompagnati col movimento della testa; scrive sillabando e dunque imponendo una cadenza percussiva al suo copione. Questa cercata poeticità – che usufruisce di Sovente e Virgilio, di Dante e Moscato, dell’hip hop, della musicalità classica, della dialettalità, della propensione al neologismo e al frasario reinventato – genera una campionatura che favorisce la possessione attoriale da parte del Verbo: gli interpreti, prima che portatori, sono portati dal Verbo. Strumento d’appoggio recitativo, mezzo attraverso il quale si favorisce l’associazione immaginaria per la resa di una condizione, uno stato d’animo o d’una gestualità specifica, il verso di Borrelli diventa un flusso ed è questo flusso che gli attori vivono per il tempo della recita, per i giorni delle repliche. Incontro Renato de Simone ed Enzo Gaito una settimana dopo la mia visione di Opera pezzentella: orfani, si riadattano alla mancanza del ruolo, dell’occasione, della recita ma credo che – piuttosto – stiano riadattandosi (lentamente e con fatica) alla mancanza del flusso verbale di riferimento e di ciò ch’esso comporta: la fusione tra azione e coscienza, per cui non c’è dualismo e si diventa ciò che si fa, si fa ciò che si è diventati; l’assolutismo della concentrazione su una serie di stimoli limitati e precisi, per cui li si mette in pratica inevitabilmente; la perdita dell’Io per cui non c’è contrattazione tra il sé ed il ruolo né tra sé e gli altri: tutti i compagni di recita e addirittura tutte le cose costituiscono un’unità; la piena padronanza dei propri atti e dell’ambiente, con un aumento del concetto positivo e propositivo di se stessi (immerso nel flusso riesco a fare e dire cose che non avrei mai pensato di fare o dire); la non contraddittorietà delle proprie esigenze d’azione; l’autodeterminazione, per cui chi è investito dal flusso non sembra aver bisogno di ricompense esterne o di finalità ulteriori da quelle imposte dall’opera.
Il verso – più della prosa – alimenta “il flusso” (così lo chiama Turner in Dal rito al teatro), ovvero lo stato di coinvolgimento totale che contraddistingue un attore, totalmente immerso tanto da non riconoscersi, da non vivere un distacco dalla propria parte, da non dover riflettere nel generare una partitura di azioni e di reazioni. Gli attori di Opera pezzentella mi sembrano in pieno flusso: sono padroni d’ogni loro gesto, non operano una distinzione tra la propria individualità ed il contesto ambientale, riescono a relazionare passato, presente e futuro della propria presenza scenica come se fossero. Frutto di una partitura testuale dalla funzione quasi sciamanica, la cui plurifattura lessicale (pseudo-napoletano del Seicento, italiano contemporaneo, localismo flegreo e idioma settecentesco, vernacolo bestemmiatorio, vocalità salmodiante) determina energia della performance e modalità di partecipazione individuale e collettiva alla stessa. Così Opera pezzentella inizia con la versificazione animale, una sorta di ricerca della prima parola o del primo suono significante, tra lamento e incertezza fonetica e termina con la ritualità modulata dell’esequie, accompagnata melodicamente dal sonoro borrelliano. È in questo modo che la Parola si fa Carne perché la Carne renda la Parola generando la sua Scena. “Pecché do fiato a na voce che nun tene cuorpe? / Pecché m’ammanca ‘o sciato puntualmente? / Pecché nun luce ll’ombra, manco r’ ‘e mie corpe?” chiede Lucia mettendo in relazione fiato e muscoli, voce e consistenza fisica.

Napoli
“Rimiamo che esistiamo”, dunque, per “esserci e nella memoria riconoscersi” è ciò che fanno le “angele scelliate” di Borrelli (peccatori, traditori, rivoluzionari che hanno fallito, madri mancate, amanti rimasti senza amore, vittime degli inganni altrui o protagonisti d’inganni fatti a danno d’altri), che sono figure coerenti con gli abitatori tradizionali del Purgatorio proletario napoletano – esseri senza nome, morti senza dignità, vinti dalla storia, piegati da una malattia, carcasse abbandonate in piena carestia o gettate come avanzi –  che, come afferma De Matteis, la preghiera (e la poesia di Borrelli va qui intesa come una laica preghiera teatralizzata) “toglie dall’anonimato del passato, reimmettendole nel presente” (il tempo della scena) “e reinserendola nel circolo della storia” (la trama) dandole un’identità, una parvenza, una vicenda che rivive perché sia compresa, convissuta, passata a chi rimane.
Opera pezzentella realizza così un cambio di condizione facendo, degli ultimi tra gli ultimi, i protagonisti di una visione deteriore, ammalata, laida, lenitrice solo in parte e destinata comunque alla sconfitta. È questo l’ultimo pensiero che non riesco a eliminare e che da giorni mi perseguita inducendomi adesso a confessarlo: consapevole di forzare la lettura dello spettacolo non riesco a non dargli una valenza politica (sia chiaro: non ideologica né partitica) giacché mi sembra che Opera pezzentella, attraverso i suoi dannati, mi parli dell’assenza di memoria, del senso di colpa nascosto anche a se stessi, della propensione furba a dimenticare quel che accade, a rimuovere ciò che è scomodo, vergognoso o che ha fatto male: “Un popolo senza la memoria dei versi / non è degno di tale appello: dove andiamo?“ – chiede infatti Padre Crocco – “Un popolo senza ricordo e rispetto / r’ ‘a morte con tutto il suo tesoro protetto / è un popolo in condoglianza che non esiste, / destinato ad estinguersi visto e nun viste”.
E così penso alla Napoli presente, così simile a “nu Priatorio, nu munno ammalurato”, “città senza pensiero critico” in cui “abbasta che se magna e se campa buone / ‘nse ne fotte de chi cummanna e de chi è ‘u padrone”; penso a Napoli  ed al suo popolo “umile e umiliato” ed ora “adagiato alle amprese demiurghi / de nu Maradona vestut’ ‘a Masaniello / ca vence e po’ in miseria addiventa Pullecenella”; penso a Napoli e ai suoi abitanti che “campano dint’ ‘a speranza, come sorci”, che “si riproducono nonostante peripezie e scorci / di un dramma reiterato, sfuggendo la vergogna, / che spesso si rinnega e poi rinfaccia a chi agogna / ad una città migliore e denuncia la tragedia, che il popolo dimentica, dall’incubo in commedia”.  Penso a questa Napoli perché di questa Napoli Mimmo Borrelli, Opera pezzentella ed i suoi bravissimi attori mi sembra infine facciano ritratto, denuncia e ostentazione. Così i padri che hanno accecato i figli; così le madri che non hanno salvato il proprio parto; così la cammurriata della violenza che non trova mai giustificazione, l’abuso sul più debole, il desiderio bulimico di possesso; così la rivoluzione, finita nell’eccesso di potere; così l’assenza di fede, l’incapacità d’amore, l’abbandono della lotta smettono di appartenere alle creature seppellite nell’ipogeo di una chiesa del centro storico e passano, attraverso i loro interpreti, al pubblico: nel momento stesso in cui questo stesso pubblico inizia i suoi lunghi applausi. La speranza è che sia consapevole che – questa storia, morta – è invece storia nostra, viva.

 

 

 

 

 

 

 

Opera pezzentella
ricerca antropologica, testi, drammaturgia e creazione
Mimmo Borrelli
regia Mimmo Borrelli
con Paolo Fabozzo, Federica Altamura, Enzo Gaito, Andrea Caiazzo, Renato De Simone, Isabella Lubrano, Sara Scotto di Luzio, Sara Guardascione, Veronica D’Elia, Mimmo Borrelli, Riccardo Ciccarelli, Lucienne Perreca
musiche Antonio Della Ragione, Gianluca Catuogno
luci Cesare Accetta
elementi scenografici e spazio scenico Luigi Ferrigno
costumi 0770
oggetti di scena Armando Alovisi
maschere Gennaro Staiano
cordinamento musicale Antonio Della Ragione, Gianluca Catuogno
ricerca antropologica Dario Scamardella, Michele Schiano Di Cola
fonica Alessandro Papa
luci Cristian Benitozzi
sarta Gaia Sarnataro
foto di scena Luigi Maffettone
produzione Teatro Stabile di Napoli
in collaborazione con Opera Pia Purgatorio ad Arco Onlus, Associazione Culturale ‘A Sciaveca, Progetto ‘Purgatorio ad Arco: un Arco sul territorio’
lingua napoletano, dialetto flegreo, italiano
durata
1h 40’
Napoli, Complesso di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, 27 giugno 2015
in scena dal 25 al 28 giugno 2015

 

N.B.: la precedente recensione di Opera pezzentella pubblicata su Il Pickwick:
Borrelli funesto demiurgo (Michele Di Donato, Il Pickwick, 20 giugno 2014)

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