“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 19 May 2015 00:00

Il (lento) Sogno di Stein

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Davvero occorre dimenticare il Sogno di una notte di mezza estate nel recensire Der Park? Davvero basta mettere a verbale che i nomi sono cambiati, che il tutto s’ambienta nella Berlino panzer-punk degli anni Ottanta e che i vestiti hanno forma e stile moderno per dire che non c’è Shakespeare nello Strauss di Peter Stein? Davvero Ippolita e Teseo, Filostrato ed Egeo e Lisandro, Erminia, Demetrio, Elena, le fate e gli artigiani, gli spiriti e la corte sono spariti dalla scena e, al loro posto, altri personaggi di un’altra trama calpestano il palco dell’Argentina?

A me sembra piuttosto che sia ancora il Sogno il riferimento-chiave per comprendere il lavoro di Peter Stein e che al Sogno occorra tornare se si vuole (tentare di) comprendere cosa – questo lavoro ripreso a trent’anni di distanza – davvero voglia dirci. Dal Sogno quindi parto e dalla valutazione che – del Sogno – danno due dei più importanti studiosi del Bardo.

Kott vs Bloom
Per Jan Kott “il Sogno è la più erotica tra le commedie shakespeariane” e in nessuna altra opera quest’erotismo “è tanto brutale”. Per capirne il senso, ci dice Kott, occorre immaginare il prato di una villa, la notte fonda e un gruppo di giovani – vagamente brilli o stanchi, reduci comunque da una festa – che su questo prato si distendono, confusamente, lasciando andare i corpi non al sonno e al riposo ma all’abbandono di sé. Una mano tocca una mano, generando una scintilla tattile immediatamente intensa e – per questa notte sola, solo per qualche ora – lasciando che inizi e si concretizzi un desiderio sessuale. Non importa chi sia al mio fianco, dice Kott, adesso non importa: il partner non ha un nome e neanche un volto ma soltanto una funzione: darmi piacere. Occorre immaginare non un’orgia, sia chiaro, ma una delicata frenesia di turbamenti, una leggerezza fisica come presupposto della passione, occorre immaginarsi una libertà segreta che diventa, con calma prima e con accelerato trasporto poi, un atto di concessione. Elena ama Demetrio? Demetrio ama Erminia? Erminia ama Lisandro? Ebbene, durante il Sogno (ovvero durante la notte che il Sogno contiene) Lisandro vuole Elena, Elena insegue Demetrio, Demetrio brama per Erminia. Non a caso “Questa è la dama: il giovin non è questo” si trova a dire Puck (atto terzo, scena seconda).
Perché vi sia concesso fare ciò che desiderate, dice lo Shakespeare di Jan Kott ai suoi personaggi, faccio calare su di voi il buio, vi do la scusante di una divinità che si diverte a imbrogliare i fatti umani e vi dono così la possibilità di realizzare i vostri più segreti pensieri, le vostre malizie più celate. Le coppie si confondono, gli amanti diventano intercambiabili e così le carni si lasciano andare seguendo – come ad occhi chiusi – soltanto l’istinto, alla ricerca di ciò che il corpo vuole.
Per Harold Bloom Jan Kott non ha capito nulla. “Agli esaltatori del sesso e della violenza” scrive Bloom, riferendosi polemicamente proprio a Jan Kott, “consiglio di cercare altrove”, magari nel Tito Andronico: se Shakespeare avesse voluto un rituale orgiastico e libertino, insomma, “avrebbe scritto un dramma del tutto diverso”. Invece ciò che davvero conta del Sogno è la capacità dimostrata dell’autore nell’inventare questa trama. Infatti il Sogno – come La tempesta e Pene d’amor perdute – è un’opera che non ha fonte primaria ma – a differenza de La tempesta, la cui azione è minima, e delle Pene, in cui non accade nulla – nel Sogno di una notte di mezza estate il Bardo fa succedere di tutto, volutamente: “Credo che nel Sogno”, afferma Bloom, “Shakespeare abbia voluto dimostrare la propria abilità nel creare e intrecciare i quattro diversi mondi dei personaggi”: la dimensione del mito (Teseo ed Ippolita), quella degli innamorati (Erminia, Elena, Lisandro e Demetrio, che agiscono nel non-tempo della notte), quella delle fate (Titania, Oberon, Puck e i quattro spiritelli) e quella terrestre (data da mastro Zeppa e dagli artigiani che s’improvvisano attori). “Mai ho udito un discordo più musicale. Mai un toneggiar più dolce” (atto quarto, scena prima) si sente infatti ad un punto, a dimostrazione – secondo Bloom – che ciò che importava a Shakespeare era generare un intreccio irriverente ed elaborato, complicato anche oltre l’eccesso, ch’egli avrebbe comunque saputo far concludere degnamente: perciò i matrimoni, perciò la riconciliazione finale tra Oberon e Titania.
E Stein? A me sembra che il regista tedesco sia d’accordo con Kott sul senso dell’opera e che elabori la sua regia secondo il prospetto di Bloom. Ovvero: Stein ravvede nel sesso il tema del Sogno e, quindi, del suo Der Park ma – come lo Shakespeare di Bloom – coltiva anche l’ambizione di dimostrarsi capace di gestire la complessità della trama, cercando soluzioni visionarie ma funzionali. Insomma: Stein vuol provare a se stesso e a chi osserva lo spettacolo di saper tenere a bada questo dramma, simile – per dirla con Auden – a “un insieme di scatole cinesi”.

Il sesso

Inizio dal sesso. L’Oberon di Stein s’aggira tra gli uomini e le donne (Titania compresa) con un solo vero proposito, un unico scopo: cancellarne le vergogne riaccendendone la bestialità primigenia, l’animalesca tendenza a concedersi alle proprie eccitazioni, ai propri desideri. Il mondo sul quale agisce Oberon – coadiuvato da un Puck adesso chiamato Cyprian e tramutato da demone tentatore in artigiano di statuine tendenziose – è sobrio, svogliato, è un mondo nel quale la passione carnale viene esercitata nei ritagli di tempo, talora freddamente o con violenza, in termini di pura sopraffazione o di compravendita: più o meno lecita, più o meno consenziente. “Ridestarli a se stessi noi dobbiamo”, “Risvegliare i loro arditi ardori”, “Sciogliere l’amara sessualità che è in loro” giacché “cos’è la voglia l’uomo non lo sa”. Per questo, usufruendo della modernizzazione anni Ottanta di Botho Strauss e calcandola ulteriormente fino a portarla ai nostri giorni, Stein lascia che sul palco la sensualità cali come cala sulla terra il pulviscolo perché Helen, Georg, Helma, Wolf (i nuovi nomi degli amanti) riscoprano il desiderio d’essere desiderati, il desiderio che l’altro desideri ciò che mi appartiene, il desiderio di desiderare ciò che non ho ma che l’altro mi offre. Allo stesso tempo Titania, insaziabile vestale della carne bianchissima, freme (“Sono una povera femmina in calore”, “Quasi già vacca”, “Tutto mi grida di lui”) al pensiero di un toro (simbolo della bestialità della foga, della pienezza dell’accoppiamento) mentre parallelamente si consumano un atto prostituivo, un tentativo di stupro, la caccia maschile e di gruppo a una donna, una masturbazione feticista.
Oberon/Shakespeare dunque concede – ancora una volta – la libertà dell’orgasmo ma uomini e donne coniugano questa libertà in maniera riduttiva, reiterando nell’accoppiamento i vizi e la propensione ai soprusi che appartengono ad altre sfere d’azione consuete, ordinarie, contemporanee. Il mondo non sa che farsene del piacere, sembra quindi dirci il Sogno di Der Park; non sa che farsene della possibilità di allentare ogni suo freno inibitorio, concedendosi una pausa dalle norme morali per ascoltare soltanto i richiami del sangue, dei muscoli, delle viscere. Deprezza, questo mondo, l’opportunità concessa dagli dèi e dall’autore, la riduce all’ennesima prova di forza, l'affronta confermando la propria mostruosità o la spreca infojandosi senza riuscirne a godere. Così passa la notte, trascorre il tempo dell’opera, e con l’alba (ovvero il finale) tutto torna com’era: tre uomini sono incapaci di battersi per conquistare una donna; una moglie viene amata dal marito dello stesso amore provato per la Patria; un figlio bacia sua madre mentre sfugge alle cosce semiaperte della cameriera mentre “il porco” torna in ufficio e “la troia” si affretta – tailleur d’ordinanza – a raggiungere il luogo di lavoro. Fallita è dunque la missione erotizzante di Oberon, vano è stato provare a riassestare le pulsioni addormentate degli esseri umani: corrotti da una modernità dequalificante, si mostrano incapaci d’esercitare felicemente la propria natura lussuriosa, la propria liberazione più istintiva.

Lo spettacolo
Il Sogno fu scritto in occasione di qualche matrimonio di corte e forse la sua prima rappresentazione avvenne nel vecchio palazzo londinese dei Southampton: un edificio tardo-gotico, fatto di logge e loggette, illuminato da fiaccole e dotato di grandi androni con ampie finestre e cinto da un cortile rettangolare. Abbiamo dunque gli sposi e i loro invitati all’esterno dell’opera mentre, all’interno d’essa, si muovono le coppie (divine e umane), una compagnia d’attori amatoriali, fate e un diavolo di nome Puck, parente all’altro diavolo di Shakespeare: l’Ariel de La tempesta. Puck, spirito domestico, assume l’atteggiamento del consulente maligno, divertendosi non a provocare ma a compiacere le implicite e taciute passioni degli uomini e delle donne. Puck, infatti, non impone ma sostiene, favorisce, asseconda le richieste mondane disubbidendo al padrone divino (Oberon). “Faccio statuette? Nient’altro?” chiede, sapendo che il suo intervento è decisivo perché ciò che si vorrebbe avvenisse possa avvenire davvero.
Stein dunque comprende che Puck è ben altro dal folletto (in)naturale messo in scena troppo spesso, verdognolo come un nano da giardino e interpretato solitamente da un ragazzino (o da una ragazzina mutata in maschietto) che compie salti, giravolte, capriole all’interno di uno spazio agghindato alla maniera delle favole dei fratelli Grimm o, alla peggio, come una distesa di rovine monumentali e naturali assieme: rocce e colonne, templi e mura rupestri, altari e cascate. Si tratta di una delle intuizioni migliori di uno spettacolo complicatissimo, che Stein cerca di possedere interamente organizzando una carrellata di quadri, imponendo i cambi di scenografia a vista e portando finanche i personaggi (ovvero gli attori ancora nel ruolo) a chiacchierare, seduti a quattro tavolini da bar posti in linea, tra palco e platea. Vediamo quindi piani obliqui e un sipario teatrale, una vasca di marmo e pareti di rami e di foglie, l’interno di un salotto, lo scorcio di una selva, un albero gigante, una casa con quarta parete assente, uno studio-laboratorio largo ventiquattro vetrate, piani sopraelevati che calano dall’alto e rimangono tesi a mezz’aria. Questo ed altro per rendere l’abbondanza shakespeariana che – intesa alla maniera di Bloom – è il frutto della voglia del Bardo di mostrare la propria bravura concependo (quasi) dal nulla una complicata tessitura eterogenea in cui coabitano fantasioso e realistico, mestiere artigiano e teatralità, meraviglioso e consueto, contemporaneo e fabulistico. Su questo trovo conferma nel fatto che Chesterton giudicò il Sogno il più grande tra i poemi shakespeariani, non tanto per la bellezza della poesia ma per la complicata architettura complessiva: “Il supremo merito letterario del Sogno” – scrisse – “è un merito di progettazione”.
Stein, nel merito, si confronta quindi direttamente con Shakespeare. Riesce in ciò in cui riuscì l’autore? Darei una risposta ambivalente. Il regista infatti dimostra di saper tenere insieme i mondi molteplici e le suggestioni plurime del Sogno facendo di Der Park una continua girandola coabitativa per cui miti e vita, sogni e materia, proiezioni e corpi convivono eliminando la distinzione basilare tra essenza ed esistenza. Tuttavia Der Park procede per momenti, per singole visioni poste in sequenza e il ritmo di questa sequenza progressivamente diminuisce facendosi lento, talora lentissimo, durante le quattro ore di spettacolo. La sensazione personale è quella di un lavoro pregevole ma che stanca giacché arriva esso stesso stancato al finale, come trascinandosi, infiacchito dalla propria immaginazione debordante. Simile a un sognatore in preda alla confusione dei suoi stessi sogni Stein moltiplica le accezioni del tema, lo dilunga in tirate monologiche, si permette di decorarlo con gli orpelli, si concede qualche esagerazione estetica o di parola. Così, terminato Der Park, mi chiedo: davvero risulta fondamentale ogni singola scena veduta? O poteva fare a meno di qualche trovata? Gli applausi del pubblico, che sento deboli, potrebbero essere una risposta.

La politica
E il testo di Botho Strauss? E la valenza politica di questa scrittura teutonica, nata nel 1983 e messa in scena in prima nel 1984? Stein, in un’intervista contenuta nel libretto di sala, dichiara che la sua attualità è “chiarissima”, che “Botho Strauss ha doti quasi divinatorie” e che “ha saputo prevedere meccanismi e relazioni sociali che allora potevano apparirci oscure, ma che col tempo si sono sviluppate e incattivite”. Dunque la propensione contemplativa di un’alto-borghesia ormai in cancrena, il razzismo (“Io non posso sopportare i negri”, “I negri sono esseri inferiori”), il cuckoldismo coniugale e la percezione spaventosa della crisi economica tra “preoccupazioni finanziarie” (“Non voglio sentire che la crisi ha colpito anche noi”) e l'irrefrenabile bulimia di denaro (“Io ho un’autentica voracità di successo”, “Io ti voglio forte”, “Io ho bisogno di un uomo che vince” e la cui vittoria si misura coi “soldi, tanti soldi”). Si tratta di passaggi interessanti, di frammenti nei quali con maggior evidenza l’opera s’avvicina alla cronaca odierna, dicendo in forma diversa quel che ci comunicano le pagine dei quotidiani. Rimango tuttavia convinto che – anche nell’offrire questi lampi d’odierno – in realtà il vero riferimento rimanga il Sogno: basta aver letto i saggi che a quest’opera hanno dedicato Alessandra Ruggiero, Shirley Nelson Garner o Jonathan Hall per comprendere quanto il testo primario possieda la capacità di parlarci del nostro mondo: delle dinamiche di potere, delle politiche di genere e finanche delle processo di formazione di identità dei sudditi di uno stato nazionale (penso alla staccionata tedesca che appare in Der Park) tra concetto di classe, omologazione sociale e distribuzione gerarchica degli individui. Questo perché, per dirla con le parole dello stesso Botho Strauss, “il Sogno di una notte di mezza estate continua per sempre”. Questo perché Shakespeare seppe scrivere al presente, riuscendo a parlare in eterno.

 

 

 

 

 

Der Park (Il parco)
di Botho Strauss
da Sogno di una notte di mezza estate
di William Shakespeare
traduzione Roberto Merlin
regia Peter Stein
con Pia Lanciotti, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Giuanluigi Fogacci, Maddalena Crippa, Paolo Graziosi, Fabio Sartor, Andrea Nicolini, Mauro Avogadro, Martin Chishimba, Arianna Di Stefano, Laurence Mazzoni, Michele De Paola, Daniele Santisi, Alessandro Averone, Romeo Diana, Flavio Scannella, Carlo Bellamio
scene Ferdinand Woegerbauer
costumi Anna Maria Heinreich
luci Joachim Barth
musiche originali Massimiliano Gagliardi
assistente alla regia Carlo Bellamio
secondo assistente alla regia Giacomo Bisordi
foto di scena Serafino Amato
produzione Teatro di Roma
lingua italiano, inglese, tedesco
durata 4h 30'
Roma, Teatro Argentina, 12 maggio 2015
in scena dal 5 maggio al 31 maggio 2015

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