“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 25 April 2015 00:00

Five Pounds

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La professione della signora Warren è un testo di George Bernard Shaw del 1894, andato in scena per la prima volta nel 1902. È un testo che mostra con lucida sgradevolezza lo spaccato di una società borghese ipocrita dell’epoca vittoriana che la regia di Giancarlo Sepe legge come uno spartito che può essere suonato ancora oggi, di una sconcertante ed impressionante attualità. La professione a cui si fa riferimento nel titolo è quella più antica del mondo che ha permesso alla signora Warren di arricchirsi, ma non le ha concesso l’onorabilità in società che, invece, lei ha voluto costruire per la figlia.

Al centro della pièce, perciò, si intrecciano il rapporto madre-figlia e quello sesso-denaro che emergono nei due quadri iniziali che precedono la narrazione vera e propria. Il primo presenta una scena cupa, accompagnata da note musicali basse, da una sottile nebbiolina che invade il palco. Una donna in paltò e cappello scuri, la signora Warren, entra in scena da una quinta laterale sinistra accompagnata da un’ombra non ben definita. Solo parzialmente la sua figura è descritta da fasci di luce incrociati che poi si allontanano per centrare ed illuminare per tutta la pièce un grande riquadro posto in alto, al centro di un pannello che funge da parete di sfondo. L’immagine che dominerà in questo modo la scena è una cedola, un assegno della Banca di Londra del 1919 dell’importo di Five Pounds. È il fulcro simbolico della storia, il totem della vita dei personaggi. La seconda scena è poco più illuminata della precedente e mostra l’uscita di una giovane da un mucchio di libri da cui è ricoperta. Sembra indecisa su quale abito indossare, ma quei vestiti non sono reali, sono dei modelli di carta con delle fettucce che le bimbe usano per vestire le bambole disegnate. In queste due scene il regista concentra in poche immagini ombre e tagli, sagome di cartone come maschere da indossare su cui poggia la coltre luminosa emanata da quei Five Pounds in alto. Dopo il buio in sala che separa queste due scene dalla narrazione della storia, il palco è diviso in due luoghi senza alcun segno tangibile di separazione tra l’ambiente a destra, che è l’interno del cottage dove la figlia della signora Warren, Vivie, trascorre le vacanze dopo aver conseguito brillantemente la laurea in matematica a Cambridge. La parte sinistra del palco è l’esterno del villino, dove vi sono alcune sedie a sdraio. Una balaustra bassa, simile ad un muretto di pietra, separa i due ambienti dall’esterno del villino dove si intravede un corridoio e una sagoma di un’automobile a sinistra che fa capolino dal pannello centrale. Il resto del palco resta visibile nella sua nudità: le funi, i pilastri, i corridoi laterali superiori.
Tutto sembra suggerire dall’inizio che si mette in scena una finzione che non riguarda la storia, ma i personaggi che fingono, ma fino a un certo punto, di essere quello che appaiono. Dunque in questo cottage finalmente la signora Warren può incontrare la figlia che ha cresciuto nei migliori college, facendole mancare, però, la sua presenza. Con lei ci sono due suoi vecchi amici: Sir George Croft e l’artista Praed. Gli altri due personaggi maschili sono il reverendo Samuel Gardner e suo figlio Frank che abitano lì accanto. La giovane Vivie ignora il mondo che le si trova accanto, ma ha già imparato a sue spese a tenere a bada i sentimenti e i loro inevitabili eccessi, preferendo lo studio e il lavoro ad una vita che considera frivola come frequentare i teatri e i concerti. La sua severità, il suo integralismo, frutto di una crescita senza amore, stride con la figura della madre. Immediatamente tutti sono attratti da Vivie che ognuno tenta di sedurre a suo modo: Frank con la sua giovinezza e la sua simpatia sembrerebbe il candidato ideale se non nascondesse il desiderio di sistemarsi con un matrimonio con la ricca ragazza perché nullafacente e non intenzionato a lavorare. Praed, il cultore delle arti e del bello, tenta di sedurre Vivie fino alla fine pensando di farla cedere proponendole le lusinghe di un mondo che lei non conosce. Durante uno scontro con la madre, Vivie scoprirà la verità sul suo passato e su quella sincera confessione si creerà un tenue legame affettivo che per la prima volta lega le due donne. Questo sarà reciso bruscamente quando si proporrà alla giovane Sir Croft, che le offre un matrimonio che nei fatti è solo uno dei suoi affari. Quando questo sgradevolissimo colloquio, che fa emergere il cinismo di un uomo abituato per status ad avere tutto, Croft rivela che sua madre non ha mai smesso la sua “carriera”, diventando la tenutaria insieme a lui di alcune case in Europa, che in modo delicatamente ipocrita vengono chiamate “alberghi”. A quel punto la storia non può che chiudersi con un addio definitivo tra la signora Warren e la figlia. L’unico uomo che non corteggia la ragazza, ma che ha conosciuto molto bene la signora Warren da giovane, è il reverendo Gardner, vestito come se fosse lo stilista Karl Lagerfeld perfino nella capigliatura bianca lunga a coda di cavallo e pantaloni di pelle nera. È la caricatura dell’uomo che di religioso non ha nulla: si compra i sermoni da leggere in chiesa, è preso in giro dal figlio per il vizio del bere, è, insomma, una figura che, accentuata nella sua ipocrisia, si rivela paradossalmente più sincera di quella degli altri uomini.
I dialoghi tra i personaggi ruotano attorno al concetto di responsabilità, di convenienza, sul dovere tutto borghese di provare vergogna e di fingere di provare sentimenti. Sir George lo dice in modo diretto: ”Le persone rispettabili hanno le mani sporche”. Sesso e denaro, questi sono i cardini attorno a cui ruota l’esistenza delle persone rispettabili. Questi uomini non sono molto diversi dalla signora Warren, anche loro si prostituiscono, anche loro lucrano, con gli interessi, su chi nel bisogno ha la sua personale schiavitù. Le figure femminili sono le vittime di questo sistema, loro non fingono, infatti non è un caso che solo la figlia e la madre si siedano spesso al tavolo dando le spalle al pubblico, perché, mentre gli altri si vedono recitare, loro no, loro, sul palco sono quelle che pagano davvero, sono chiare e leggibili.
Che dire dell’interpretazione di Giuliana Lojodice, forse la sua ultima dopo aver dichiarato la sua uscita di scena per protesta verso la riforma dei teatri nazionali? È perfetta nel ruolo, muove le corde della compassione, della rabbia, della simpatia, si mostra come una placida signora in pensione leggermente in sovrappeso, capace di trasformarsi in una tigre e di mostrare i denti nei dialoghi con la figlia difendendo la propria storia e le proprie scelte, tutt’altro che vacua, ma solida e concreta. Giuseppe Pambieri funge da piatto di contorno, come gli altri. Se non fosse stato per un pubblico scostumato che fa suonare i cellulari, che entra in ritardo a secondo atto già iniziato, che applaude come provinciali all’ingresso in scena della Lojodice, senza essersi accorto che era già entrata in scena nella penombra iniziale, che dire? Lo spettacolo sarebbe stato perfetto.

 

 

 

 

La professione della signora Warren
di George Bernard Shaw
traduzione, adattamento e regia Giancarlo Sepe
con Giuliana Lojodice, Giuseppe Pambieri, Pino Tufillaro, Fabrizio Nevola, Federica Stefanelli, Roberto Tesconi
scene e costumi Carlo de Marino
luci Gerardo Buzzanca
colonna sonora Harmonia Team
musiche originali Davide Mastrogiovanni
produzione L’isola trovata
in collaborazione con Teatro Eliseo
foto di scena Tommmaso La Pera
lingua italiano
durata 2h
Napoli, Teatro Mercadante, 22 aprile 2015
in scena dal 22 aprile al 3 maggio 2015

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