“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 13 March 2015 00:00

Una mano di stucco

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Nella nona edizione del 1979 del secondo volume de La Cantata dei giorni dispari, Eduardo De Filippo aggiunse il testo Dolore sotto chiave scritto per la radio nel 1958 e andato in onda con la voce dello stesso autore e della sorella Titina, poi affidato alle scene in anni successivi a Franco Parenti e Regina Bianchi ed anche a Luca De Filippo e Angelica Ippolito.
In questa messa in scena il regista Francesco Saponaro, dopo aver revisionato il testo, ha affidato il ruolo di Rocco Capasso a Tony Laudadio e quello della sorella Lucia a Luciano Saltarelli, continuando un lavoro sui testi di Eduardo De Filippo iniziato con la pièce in spagnolo Yo, el Heredero (Io, l’erede) per il Napoli Teatro Festival della passata stagione.

L’obiettivo che sembra essersi prefissato Saponaro, come anche ultimamente Toni Servillo, è quello di restituire ai testi di De Filippo il loro valore intrinseco ed extratemporale spogliandoli di ogni residuo eduardiano delle messe in scena contestualizzabili e della recitazione “alla maniera di” che troppo ha pesato nella valutazione di quei testi (e tanto anche svalutandoli riponendoli nel chiuso di una rappresentazione troppo geograficamente napoletana e amatoriale). Anche le opere considerate minori come questi due atti unici Dolore sotto chiave e Pericolosamente risplendono di luce nuova e di spessore letterario. Infatti le due pièce sono introdotte da un breve monologo considerato dal regista come una ouverture, adattamento in versi e in napoletano di una novella di Luigi Pirandello del 1914, I pensionati della memoria.
A sipario chiuso e nel buio della sala, dalla piccola buca dell’orchestra del Teatro San Ferdinando un uomo vestito da becchino con una candela accesa in mano recita un “paraustiello”, un piccolo discorso sulla vita e sulla morte. La prima, in fondo, non è che un coprire una parete come si fa con l’intonaco, mentre alla seconda spetta il compito di togliere la pittura restituendo l’essenza all’essere e alle cose.
Quando il sipario si apre, la candela viene portata sulla scena al di là di una porta dove giace, gravemente malata di cuore, Elena, la moglie di Rocco. Un tavolo tondo è al centro scena, tre sedie, due porte a destra e a sinistra senza pareti divisorie. Le porte sono due inquietanti coperchi di bare. Una apre all’esterno, l’altra è quella della camera di Elena, poste sulla stessa linea orizzontale. Sulla scena vi è Lucia che attende il ritorno del fratello da uno dei suoi lunghi viaggi di lavoro. La scelta di affidare il ruolo di Lucia a Luciano Saltarelli è stata ben felice nonostante sembrasse inizialmente dovesse sostituire la vera attrice, venuta meno prima del debutto per motivi poco chiari (o forse poco nobili). Saltarelli, in un ruolo da teatro elisabettiano, incarna anche fisicamente la donna non maritata bruttina, con le gambe storte, gli abiti sempre demodé. Il suo essere stata tagliata fuori dal gioco dell’innamoramento è stato mascherato dalla proclamazione dell’amore per la libertà e dalla successiva preoccupazione per la cura dei due sposi. Lucia, ben consapevole di “non essere all’altezza dell’amore”, come lei stessa affermerà, si è spinta poi ben oltre questa cura del fratello innamorato e della cognata perché per undici mesi gli ha tenuto nascosta la morte di Elena, temendo che Rocco, non sopportando il dolore, si potesse sparare un colpo di rivoltella, così come diceva sempre, tanto per dire. Lui scopre l’inganno perché al suo ritorno ancora una volta gli è impedito di vedere la moglie, troppo fragile per sopportare anche un respiro. Stanco di una vita condotta in una continua sospensione nell’attesa che la morte risolva il dramma della sua esistenza, irrompe nella stanza vuota della moglie. Da questo istante i due fratelli si confrontano in un dialogo serrato condotto tra farsa e tragedia che svela il gioco sottile dei ricatti, dei malintesi, delle ripicche insite in ogni contesto familiare, soprattutto medio borghese. Lucia ha l’alibi del bene che vuole al fratello che cela in verità il sottile gioco del controllo della vita altrui sostituendosi in tutto. Qui Rocco accusa la sorella, non solo di averlo anche derubato realmente, ma di averlo privato del diritto fondamentale di ogni uomo che è quello di provare dolore. Se avesse saputo della morte della moglie a tempo debito, avrebbe vissuto fino in fondo quella fase (oggi chiamata elaborazione del lutto) che deve essere attraversata anche grazie alla retorica delle frasi fatte degli amici e del finto dolore di circostanza dei parenti. Così, invece, lui non riesce a provare nulla, non ha potuto provare nemmeno odio per la moglie perché “Chi ha il coraggio di odiare una moribonda?”. Intanto la vita è andata avanti lo stesso, perciò Rocco rivela alla sorella di essersi innamorato di un’altra donna incinta di lui, ora in procinto di partire con un altro uomo stanca di aspettare una morte che li avrebbe liberati. Quando una donna è tua? “Una donna è tua perché si mescola tutto”, il cervello, le mani, si diventa una cosa sola, un essere solo. Lui prova a cercarla più volte al telefono per fermarla, tra uno scontro e l’altro con la sorella, ma senza successo. L’amico del palazzo che, saputo lo svelamento dell’inganno, viene a recitare la parte della condivisione del dolore, fa deflagrare l’insofferenza di Rocco e la sua rabbia per quello che è accaduto perché non è disposto a recitare nessun ruolo visto che la sorella con l’inganno lo ha privato di quello principale. La frase che racchiude il senso ipocrita del vivere comune è quella che pronuncia l’ospite alla dichiarazione di Rocco che lo caccia di casa manifestando il suo schifo per lui e per tutti. È la frase più divertente e più tragica, paradigmatica di Dolore sotto chiave. “Ma queste sono cose che si dicono alle spalle, non in faccia!”.
Rocco riprende la candela accesa nella stanza di Elena e non esce dalla porta, ma valica quelle pareti che non ci sono per poggiarla sul tavolo. Una scintilla di vita vera è tutto quello che rimane mentre Rocco si trova solo sulla scena ed il telefono squilla. Troppo tardi anche per Rocco che esce dalla “bara” di casa. Dramma pirandelliano per temi e per la paradossalità delle situazioni, reso in modo asciutto e “filologico” da Saponaro e da un bravissimo Laudadio che riesce a non scivolare mai sulla facile retorica di alcune battute sull’assurdità dell’esistenza, grazie ad una presenza e ad una abilità attoriale padrona dei tempi e degli spazi. Gli unici elementi che Saponaro ha lasciato sulla scena che richiamano al passato di questo testo sono il telefono a muro in bachelite nera e la sottile traccia di polvere sulle spalle degli abiti dei tre personaggi. Un dramma umoristico appena uscito dalle pagine del nostro passato che brilla ancora nel barlume di una luce di candela.
Il secondo atto, Pericolosamente, vede le due porte precedenti coperte da due pannelli montati a scena aperta e una poltroncina verde sulla destra sulla quale si accascia sovente Dorotea, moglie di Arturo che ha incontrato il suo vecchio amico Michele appena tornato dall’America a cui ha offerto una stanza in affitto a casa sua. Quest’atto unico del 1938 ha i tempi veloci dello sketch che gioca sul litigio tra una moglie dal cattivo carattere e il marito che vuole “ammorbidirla” a colpi di rivoltella caricata a salve. La donna crede che questa sia carica e grida ogni volta al miracolo, mostrando subito un carattere più arrendevole e condiscendente. Michele, convinto inizialmente di trovarsi in una casa di folli, quando l’amico gli rivela il suo stratagemma per vivere più tranquillo, trova geniale questo sistema per riportare la pace in famiglia, così come hanno intuito anche i vicini di casa e del rione che hanno adottato lo stesso sistema per riportare le loro mogli a più miti comportamenti. Riproposto in versione cinematografica nel 1965 con Marcello Mastroianni, Virna Lisi e Luciano Salce in pieno boom economico, il testo è l’ultimo ironico appello ad una soluzione “pacifica” al bisogno di emancipazione femminile.

 

 

 

 

Dolore sotto chiave e Pericolosamente
due atti unici di Eduardo De Filippo
con un prologo da I pensionati della memoria
di
Luigi Pirandello
tradotto in napoletano da
Raffaele Galiero
di
Luigi Pirandello
regia Francesco Saponaro
con Tony Laudadio, Luciano Saltarelli, Giampiero Schiano
scene e costumi Lino Fiorito
luci Cesare Accetta
suono Daghi Rondanini
assistente alla regia Giovanni Merano
assistente ai costumi Francesca Apostolico
direzione tecnica Lello Becchimanzi
produzione Teatri Uniti Napoli, Teatro Festival Italia
in collaborazione con Università della Calabria
lingua italiano, napoletano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro San Ferdinando, 10 marzo 2015
in scena dal 10 al 15 marzo 2015

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