“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 19 February 2015 00:00

That was Ireland

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Primo appuntamento per Visioni – Rassegna del Cinema d’Autore, giunta alla XXVI edizione, e anche per quest’anno ospitata nella sala 1 del Cinema Partenio di Avellino.
Irlanda, contea di Leitrim, 1932. James Carlton torna da un esilio di dieci anni a New York, dove si era rifugiato dai suoi avversari durante la guerra civile che vedeva contrapposti i sostenitori del Trattato Anglo-irlandese e i suoi oppositori. James, o meglio, Jimmy, era già stato una prima volta in America, dopo aver disertato dall’esercito di Sua Maestà (poiché si rifiutava di andare in India) e aver praticato vari lavori come scaricatore di porto, operaio nei bacini carboniferi e macchinista di nave (approda a New York nel 1909). Qui si appassiona agli scritti di James Connelly, uno tra i principali indipendentisti irlandesi che dopo la rivolta di Pasqua del 1916 era stato messo a morte dagli Inglesi (sorte toccata, tra gli altri, al poeta e militante Patrick Pearse).

Connelly era stato anche un fervente marxista e le sue idee affascinano Jimmy fino a fargli fondare il James Connelly Club a New York. Idee che mette a frutto quando rientra in Irlanda nel 1922, costruendo un capannone concepito come un centro sociale ante litteram, uno spazio di socialità dove è possibile ballare, suonare, dipingere, leggere, o imparare a fare tutte queste cose, grazie alla disponibilità dell’intera collettività. Un luogo in cui incontrarsi, discutere, socializzare, o semplicemente passare il tempo, dopo una dura giornata di lavoro. Bella idea quella di Jimmy, e alla Pearse-Connelly Hall la gente viene volentieri. Poi la guerra civile arriva anche lì, e il Nostro è costretto a riparare tornando in America. Dopo una decade Jimmy torna al suo paese per dedicarsi alla madre rimasta sola. Ha ormai quarantasei anni ma i giovani, che in seguito alla Grande Depressione non hanno alcun lavoro, gli chiedono di riaprire la sala. Le perplessità durano poco, e insieme agli amici di un tempo Jimmy si dà da fare per rimettere in sesto quello spazio condiviso. Così ritrova Oonagh, sua antica fiamma, che non aveva avuto il coraggio di fuggire con lui e che adesso è sposata ad un uomo semplice ed è madre di due bambini.
Tra i giovani che ballano ai ritmi del jazz – musica nuova portata dritta da New York insieme ad un grammofono – anche la figlia di un suo nemico precedente, il fascista O’Keefe, simbolo della conservazione più retriva, alleato dei nobili latifondisti che affamano i contadini (se questi non riescono a pagare il fitto vengono cacciati dalle loro case). Ma l’opposizione più decisa alle serate in compagnia è quella della chiesa, o meglio, di padre Sheridan, anziano parroco che teme il diffondersi delle idee sediziose di socialisti e comunisti più della perdizione di anime e corpi, e che soprattutto vede nella hall un territorio franco su cui la chiesa non può esercitare il proprio potere. Il sacerdote ne fa un’ossessione, e con tutti i mezzi – quali la pubblica denuncia domenicale dei parrocchiani che hanno osato recarsi a ballare o il ricatto di non concedere più aiuti a chi ne ha bisogno – fa sì che molti abbandonino le attività del centro. Inoltre i militanti di sinistra chiedono a Jimmy di denunciare pubblicamente i soprusi dei padroni verso i contadini in disgrazia e di proclamare la divisione delle terre.
Un ritorno all’Irlanda questo Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà, che nel titolo italiano rimanda al primo dei film storici di Ken Loach, quel Terra e libertà che consolidò la fama del regista qui da noi. Allora oggetto di entusiasmo, il film apparve appesantito da un’esigenza didascalica e da una retorica manichea che ne segnavano lo scarto da quella naturalezza con cui il regista ha abitualmente trattato le vicende – tragiche o eroicomiche – dei protagonisti di oggi. Una sensazione di un eccessivo ossequio nei confronti della Storia e delle storie scritte (d’allora in poi quasi tutte da Paul Laverty), un tono serioso che si autolimita poiché irretito dal timore di tradire le tesi da esporre. Difetti che si sono ritrovati nel successivo Il vento che accarezza l’erba, con cui Loach ha finalmente vinto l’agognata palma d’oro sulla Croisette nel 2006, e che tratta di un evento privato sullo sfondo della Guerra d’indipendenza irlandese.
Anche nel caso di quest’ultima opera lo script semplifica al massimo la descrizione dei personaggi per renderli funzionali al dipanarsi degli eventi (realmente accaduti, ricordiamolo), ed il tono è meno pesante di altre volte. Resta però un senso di prevedibilità, di tragedia all’orizzonte, di un rovescio inevitabile del fato dopo il positivo entusiasmo dei momenti in cui si riattiva la sala e si fanno le prove – sottolineati dall’allegria dei ritmi tradizionali reinventati da George Fenton (qui alla sua undicesima collaborazione con Loach). La tensione degli scontri sale programmatica, lasciando a pochi determinati momenti il respiro libero della messa in scena, come nel ballo struggente di Jimmy con Oonagh nella sala deserta. Non mancano le consuete stoccate ai problemi dell’oggi, e il rimando ai nostri tempi è messo lì a bella posta, ma con naturalezza. Ad esempio, nel cinegiornale della visita del nunzio apostolico a Dublino, che legava ancor di più la repubblica irlandese alle politiche del Vaticano, le folle ordinate di allora richiamano le masse di fedeli che accolgono i papi nei loro viaggi attuali, ricordando che dietro una sincera buona fede si trascina un pensiero che ha potuto (può, potrà?) condizionare le scelte di governi e parlamenti su alcuni temi. O come quando Jimmy denuncia che il prezzo della Depressione si è scaricato sulle spalle dei più poveri, lasciando inalterati i rapporti di sfruttamento tra le classi. Parole che sembrano valere anche per l’oggi. Questa volta la Chiesa non si fa avvocata dei poveri (come in Riff Raff) ma mostra tutto il suo potere condizionante, guardiana degli atteggiamenti sociali e di quelli individuali, e a padre Sheridan che lo biasima per il suo comportamento antitradizionalista (ha approfittato della confessione per dirgliene quattro) Jimmy risponde con un "Le dico io cosa è un sacrilegio: avere nel cuore più odio che amore!".
Forse è il suo sguardo amareggiato, di esule in un mondo che non sente più suo (sembra che Carlton sia stato l’unico irlandese esiliato nella storia della repubblica) ad aver spinto Loach nell’illustrazione di questo pezzo di storia (e per una volta l’America, dove il Nostro si rifugia e coltiva la sua coscienza politica, è più tollerante della vecchia Europa). Lo fa sempre con mestiere ed eleganza, confermando la scelta di attori sempre adatti ai ruoli. Bella la prova dei quasi sconosciuti Barry Ward (ma ha molta fiction, tv e teatro alle spalle) e Simone Kirby. Diabolicamente pervicace l’anziano prete di Jim Norton. La fotografia di Robbie Ryan assume toni caldi, antinaturalistici, mai oleografici o banalmente seppiati.

 

 

 

 

Visioni
Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà (Jimmy’s Hall)
regia
Ken Loach
con Barry Ward, Simone Kirby, Jim Norton, Brían F. O’Byrne, Andrew Scott, Sorcha Fox
sceneggiatura Paul Laverty (dalla pièce Jimmy Gralton’s Dancehall di Dolan O’Kelly)
fotografia Robbie Ryan
musica George Fenton
paese Gran Bretagna, Irlanda, Francia
distribuzione Bim
lingua originale inglese
colore colore
anno 2014
durata 109 min.
Avellino, Cinema Partenio, 11 febbraio 2015

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