“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 16 October 2014 00:00

Poco sole in questa notte

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Chioccolio sommesso, borbotta sonoro, quando la scena ancora non s’abita, quando ancora muta è la ribalta. Introduce al medium fluido che farà da sfondo all'azione: l'oceano, nel quale, gocce d'umano, si racconterà di quattro vite. Quattro personaggi che si presentano di lì a poco ad offrirsi come una cartolina in visione, come un’istantanea ricordo che immortala i partecipanti ad un viaggio; quattro personaggi che giocano le proprie vite su un tavolo mobile di roulette, e la cui sorte è segnata – essendo viaggiatori imbarcati sul Titanic – e che attraverseranno lo spazio sospendendo il tempo: “Abitiamo lontani da ogni calendario”, la frase che sembra suggerire la declinazione metaforica di questa traiettoria transatlantica, quindi occasione per viaggiare all’interno di se stessi e per mostrarsi in tutta la propria limitante finitezza.

Quattro personaggi, quattro vite, contigue e ravvicinate, eppure mai (o quasi) frontalmente comunicanti, ma per lo più centrate su se stesse, sulle proprie incompiutezze, sulle proprie irresolutezze: il cinico arrivista che dirige il lussuoso ristorante di bordo, la di lui consorte cui lo legano possesso anaffettivo ed impossibilità materiale di separazione e sostituzione, il primo ufficiale che naviga a vista con l’anima che gli annega nel brandy, suo vizio e sua vergogna, una suora, la cui monacazione mostra ormai la corda di una vocazione sbiaditasi fra le onde ed il salmastro, desiderosa di riappropriarsi di un nome di donna (“Agnese”) e non più solo d’una qualifica monacale (“Madre”).
Quattro personaggi, quattro vite che attraversano una notte, coperta buia che anela ad essere alzata, chiarore bramato che venga ad illuminare ciò che si è perduto o ciò che non si è mai avuto. E che minaccia lucore non sostenibile da uno sguardo che non si nasconda dietro lenti scure, tanto può essere difficile accettare la propria immagine reale, realmente riflessa in diafano chiarore, tanto può risultare arduo scegliere fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe.
I movimenti di scena sono scanditi dall’evoluire attorno ad un tavolo che muove da sé, che rotola in scena come fosse davvero una roulette e non a caso sarà sul suo piano che la moglie del direttore del ristorante di prima classe sarà offerta come posta di un giro di gioco, una riffa a cui si partecipa sapendo già che a vincere sarà sempre il banco. E s’anima, la scena, di un dialogare frammentario, in cui l’interlocuzione è differita (si pensi al capitano che è presente solo in voce) o che avviene per lo più senza frontalità, come a voler sottolineare quanto ciascuno sia monade non del tutto capace di instaurare una relazione orizzontale con l’altro; non è un caso che il cinico maître si rivolga alla moglie dicendole di “voler ricordare la sua schiena”; non è un caso che costei sia succube ed incapace non solo di una scelta differente, ma anche di un dialogo diretto; non è un caso che il primo ufficiale consumi di nascosto dagli altri il proprio vizio etilico, che ne affoga la frustrazione; e non è un caso che la suora confessi rivolta alla platea e non ad altri il proprio nicodemismo di fondo, il proprio dissidio interiore fra tonaca e paillettes.
La partitura scenica di questa vicenda, di questo viaggio destinato all’abisso, gioca su un impianto dialogico rarefatto e parcellizzato, vòlto ad offrire quadri umani sbozzati, bidimensionali, senza profondità; l’impianto scenico è invece minimale, ruotando tutto attorno ad un tavolo che abita la scena come fosse un quinto personaggio, muovendosi come se a farlo ondeggiare fossero i sommovimenti del mare (ed invece muove motu proprio), di più, come se la vita dei personaggi si giocasse su quella nave, di cui il tavolo assurge a metonimica allusione.
Eppure, in questa partitura rarefatta ed allusiva, quel che manca davvero è la creazione di un continuum narrativo che sappia vivificare la scena, trasmetterne empaticamente l’essenza. Quel che suggerisce è invece una costruzione macchinosa e meccanica, il cui pàthos resta sottotraccia, come fosse rimasto rinchiuso dietro ai cancelli della terza classe, per poi finire inghiottito dalle profondità del mare. S’aggiunga poi qualche soluzione scenica che poco convince (ad esempio: se a tavola i piatti sono vuoti e finta è l’azione del cibarsi, perché invece contestualmente i calici si riempiono e frizzano di bollicine? O ancora la sostanziale incongruità della videoproiezione che chiude la pièce, di fatto slegata dal disegno complessivo e priva di un’effettiva funzionalità rispetto allo sviluppo drammaturgico), ed una recitazione che sceglie uno ed un solo registro, senza variazioni che conferiscano spessore ed evidenza marcata ai passaggi più significativi, ed il quadro complessivo finisce per non risultare soddisfacente, come se la regia non fosse stata capace di individuare la rotta giusta, afferrare il timone e condurre in porto il proprio (im)bastimento.
Il sole di notte resta quindi spettacolo che non abbaglia, che compie il suo corso, il suo viaggio transatlantico andando incontro – un po’ come i suoi personaggi – ad un destino segnato.
Non che naufraghi, beninteso. Ma nemmeno si può dir che veleggi.

 

 

 

 

Il sole di notte
di Ramona Tripodi
liberamente ispirato a La fine del Titanic
di Hans Magnus Enzensberger
regia Ramona Tripodi
con Raffaele Ausiello, Giulio Barbato, Rosalba Di Girolamo, Ramona Tripodi, Luciano Roffi
aiuto regia Adriana D’Agostino
disegno luci Cesare Accetta
disegno audio-video Andrea Canova
produzione In Bilico Teatro
coproduzione Il Pozzo e il Pendolo
foto di scena Costantino Mauro
lingua
italiano
durata 1h
Mercogliano (AV), Teatro 99 posti, 11 ottobre 2014
in scena 11 e 12 ottobre 2014

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