“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 26 August 2014 00:00

Sì, cambiare

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Torna in Irpinia il festival internazionale del cinema Laceno d’Oro, giunto alla sua trentanovesima edizione. Quest’anno il premio principale, intitolato al giornalista e critico avellinese Camillo Marino – fondatore del festival – è stato assegnato al regista cinese Jia Zhang-Ke (di cui si sono visti quattro suoi lavori, tra cui l’ultimo A touch of sin), mentre il premio Giacomo d’Onofrio (collaboratore di Camillo Marino e insieme a lui condirettore della rivista Cinemasud) al giovane autore emergente è andato a Fabio Mollo per Il sud è niente.

Ubicata essenzialmente ad Avellino, ma con proiezioni anche ad Atripalda e a Mercogliano, la rassegna organizzata dal circolo di cultura cinematografica Immaginazione si è avvalsa della collaborazione di tante altre entità legate al cinema e a varie espressioni artistiche, come Sentieri Selvaggi, i Quaderni di Cinemasud, il Centrodonna, Flussi, il Comitato Eliseo e non ultimo lo Zia Lidia Social Club, che ha proposto alcuni film – di giovani autori italiani – mai proiettati ad Avellino (e in generale poco visti sull’intero territorio nazionale) e una serie di documentari italiani sul lavoro operaio. Primo di questi è stato La svolta. Donne contro l’ILVA di Valentina D’Amico.
Cosa hanno in comune Margherita, Vita, Anna, Patrizia, Caterina e Francesca, le donne scelte per raccontare di un cambiamento nelle incredibili vicende di un processo giudiziario, ma soprattutto di un’inversione nell’opinione di un’intera comunità circa il destino del proprio territorio, di una svolta nella narrazione che una città articola sulle condizioni del proprio passato e i traguardi della contemporaneità? Un nome che si associa per riflesso a quello di Taranto: l’ILVA, come è stato ribattezzato il polo siderurgico dell’Italsider quando quest’ultima venne messa in liquidazione, recuperando così l’antica denominazione degli inizi del Novecento, poco prima di essere acquistata nel 1995 dal gruppo Riva. Ed è proprio a quest’ultimo triste segmento della storia dell’acciaieria che si rivolge il documentario, partendo da quelle sei donne le cui esistenze sono state segnate dalla criminale gestione degli impianti. Un destino purtroppo comune a troppi uomini e donne che lavorano presso questi giganti della trasformazione e dell’inquinamento, ma che è divenuto ancora più avverso per la sistematica violazione delle norme minime di tutela del lavoro.
L’ironico controcanto al grido di denuncia è assegnato a un servizio giornalistico di inizio anni Sessanta, che con retorica ottimista declama: “Via gli olivi, via le cicale, via l’antico incanto mediterraneo. Via!… Ma perché hanno devastato così? Perché gli olivi, il sole, le cicale significavano sonno, abbandono, rassegnazione e miseria”. E così nel 1961 comincia la costruzione di quello che quattro anni dopo diventerà il maggior centro siderurgico italiano: agli iniziali cinquemilaseicento dipendenti (cui si aggiungono altri duemilatrecento addetti alle opere di ampliamento) si arriva al raddoppio dell’impianto, nel 1980, con l’impiego di ben ventunomilasettecentonovantuno dipendenti, su una superficie di quindici milioni di metri quadri, risultando così il più grande d’Europa. La produzione siderurgica ha monopolizzato lo sviluppo della città, limitando qualsiasi altra attività. Cosa che non ha salvaguardato la comunità dalla inevitabile fase di recessione: nel 1995 gli occupati erano già calati a dodicimila. Il governo decide allora per la privatizzazione, cedendo il colosso al bresciano Emilio Riva per soli 1400 miliardi (cifra che il gruppo privato recupererà in pochissimi anni), praticamente svendendolo.
Con la privatizzazione iniziano tagli e ristrutturazioni, cambia la politica dei rapporti con il sindacato. Si chiede agli impiegati di ricontrattualizzarsi come operai: chi si rifiuta viene confinato nella famigerata palazzina LAF (Laminatoio a freddo), reparto punitivo in cui gli impiegati sono costretti all’inattività, senza computer, senza niente, da cui possono allontanarsi solo se scortati dalla sorveglianza. La LAF è uno strumento per fiaccare la resistenza dei lavoratori e indurli a licenziarsi, pena la perdita della propria dignità di persone – e l’episodio è ricostruito con gli ex-operai che indossano tute e maschere bianche, semplici numeri privi di identità. La Cassazione nel 2006 condanna Riva e il direttore dello stabilimento, Capogrosso, per tentata violenza privata e frode processuale (cercarono di cancellare le prove).
Margherita è una donna che ha detto no alla ricattatoria politica dell’ILVA: per essersi rifiutata di ricontrattualizzarsi da impiegata ad operaia, è stata vittima di un preciso disegno discriminatorio: è stata accusata ingiustamente da un neoassunto (parente di un sindacalista) di aver chiesto una tangente. Conclusione: la riconferma del giovane in cambio del licenziamento dell’impiegata ostinata.
Anna, invece, è una residente del quartiere Tamburi, vicino allo stabilimento, che all’improvviso perde l’uso delle gambe per sospetta mielite trasversa. La donna scopre che molte altre persone con la sua stessa sindrome – e con grosse concentrazioni di metalli nel sangue – sono tutte residenti nei pressi di zone industriali. Taranto è la città più inquinata d’Italia: il 78% del piombo emesso a livello nazionale proviene dalla città dei due mari, così come il 57% di tutta l’emissione di mercurio. Poi ci sono gli IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici), inquinanti cancerogeni, che a Taranto vengono emessi per il 95% rispetto al resto d’Italia (percentuale seguita da quella della diossina, emessa in ragione del 92%).
Ovvio che in questo scenario la percentuale dei malati di cancro sia significativamente più alta rispetto alla media della provincia. Ma per gli studiosi l’inquinamento comporta anche l’insorgenza di disturbi infantili, come l’iperattività, e di deficit intellettivi, oltreché dell’autismo e di forme ad esso simili. A parlarcene è Caterina, mamma di Antonio, bambino al quale a diciotto mesi è stata diagnosticata la sindrome che lo isolerà dal resto del mondo.
Emilio Riva è stato condannato nel 2005 per “gettito pericoloso di polveri nocive con pregiudizio della qualità della vita della collettività”. Ha evitato il carcere pagando un’ammenda di soli 7800 euro. Ma ciò che più sconcerta i tarantini è che il Comune e la Provincia, che inizialmente si erano costituiti parte civile, prima della fine del processo hanno deciso di non procedere sotto pressione della politica, la quale non perseguendo il gruppo lo ha costretto a siglare un accordo per la cosiddetta “ambientalizzazione”, ossia la riduzione dell’impatto. Paradossalmente, però, c’è l’obbligo da parte dell’ARPA (Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione dell’Ambiente) di avvertire l’azienda prima di ogni rilevamento!
L’opinione pubblica si è resa conto del pericolo ambientale anche grazie alle analisi fatte dalle associazioni di cittadini che hanno rilevato nel formaggio delle pecore allevate nei dintorni una quantità di inquinanti tripla rispetto al minimo consentito.
Nel 2008 Riva è nuovamente condannato: stavolta anche per “omissione dolosa di cautela contro gli infortuni sul lavoro”. Inizia così una fase in cui sembra che la giustizia cominci a stabilire torti e ragioni.
Vita è madre di Paolo. Patrizia e Francesca sono mogli di Silvio e di Antonino. Donne ancora incredule che il lavoro, invece che dignità, abbia portato la morte ai loro cari. Le loro voci riportano rassegate il cinismo del linguaggio aziendalistico adottato da Riva, per il quale è fisiologico che in uno stabilimento con ventimila addetti debbano esserci degli incidenti. Ma “Devono morire per forza i nostri ragazzi?... I ragazzi non devono morire fuori delle discoteche, figuriamoci sul posto di lavoro!”.
Tipico esempio del documentario di denuncia, La svolta non si limita ad esporre cifre e fatti, e cerca di restituire l’immagine di una città compromessa ma ancora capace di prendere coscienza dei suoi problemi, di intraprendere la via del cambiamento, dell’emancipazione dall’obbligatorio binomio sviluppo economico-inevitabile inquinamento. Il documentario ricorre anche ad una voce narrante e a due momenti teatrali, in cui un attore recita i pensieri dell’operaio Antonino (la cui vedova, Francesca Caliolo, è autrice del racconto omonimo), proprio per renderci più partecipi dell’angoscia di una morte bianca, perché dietro questi “effetti collaterali” ci sono sempre uomini e non numeri.
Nella colonna sonora, affidata a Yo Yo Mundi e Angelo Losasso, spicca per testimonianza poetica La tua storia di Stefano Giaccone sui titoli di coda.

 

 

 

 

 

Laceno d’Oro – Festival Internazionale del Cinema
La svolta – Donne contro l’Ilva
regia Valentina D’Amico
con Alessandro Langiu, Caterina Buonomo, Francesca Caliolo, Anna Carrieri, Patrizia Perduno, Gianbattista De Padova, Michele Lombardi, Vittorio Amodio
soggetto e sceneggiatura Valentina D’Amico
fotografia Salvatore Bello
musica Yo Yo Mundi, Angelo Losasso, Stefano Giaccone
paese Italia
produzione Filmare s.r.l.
lingua originale italiano
colore a colori
anno 2010
durata 61 min.
Avellino, Carcere Borbonico, 23 agosto 2014

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