“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 09 August 2014 00:00

Servi nella gleba

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Due figure cominciano a muoversi sul palco, mentre alle spalle su un telone bianco si proiettano immagini di un campo innevato: còmpa Prisco e còmpa Mostino, come animali svegliatisi dal letargo, si ridestano dopo un sonno di chissà quanti anni.
Sono due contadini, due bifolchi, a giudicare dai poveri stracci indossati e dai ceffi che ne segnano l’aspetto (caricaturale sì, ma non lontano dagli irregolari visi dei poveri). Il loro è un linguaggio che comprende dialetti irpini di varia provenienza, con espressioni ormai desuete che nei paesi non si usano più (o le usano solo i vecchi), a fianco di epiteti tipicamente locali (“stordo”, “pepe” – davvero ignorati nelle altre province campane).

La situazione è comica perché l’aspetto stesso e il linguaggio (che rafforza l’ignoranza mostrata nei dialoghi) si accompagnano a movenze clownesche. E la vis comica genera empatia, serve a coinvolgere il pubblico, a predisporlo alla complicità coi personaggi. È il registro usato per veicolare un discorso politico serio, senza la pesantezza e il didascalismo dell’opera a tesi, ma con la leggerezza che il grottesco controbilancia al tragico.
Esteticamente affini a Tognazzi e a Gassman de I mostri di Dino Risi, o a Sordi e a Gassman de La grande guerra per le situazioni affrontate, i due compari entrano maldestramente sui palcoscenici della storia sempre nelle ultime file, e come l’Orlando della Woolf si addormentano in un’epoca per poi risvegliarsi in un’altra, senza cambiamenti di sorta (e di sorte).
È una coscienza di classe posseduta ma mai messa in atto: il loro essere candidi, puri di cuore (e di cervello), ignoranti delle cose e delle scelte prese altrove nel mondo, non li esime dalla consapevolezza che “… la terra non è mai stata dei zappatori… il cielo non è degli uccelli? La montagna non è del lupo? … ma la terra non è mai stata di chi la lavora”. Le immagini accompagnate dalla musica sono le cesure fra le epoche. Ritroviamo i due vestiti da cafoni discutere su come migliorare la propria condizione. Prisco è convinto che basterebbe un “alifante” per lavorare la terra. È lui il soggetto comico innovatore che prende l’iniziativa, còmpa Mostino è il tipo concreto restio al cambiamento, anche se i ruoli si equivalgono quando i bisogni primari vanno soddisfatti (come nella gag delle allusioni sessuali, e qui i due rammentano i promiscui sottoproletari fratelli di Ostia, prima regia di Sergio Citti). La storia entra in scena con il primissimo piano di un attore in video che proclama la chiamata alle armi da parte del re, il quale promette ben dieci galline a chi andrà in guerra!
Nuovo quadro, nuova situazione: dopo immagini velocizzate di truppe all’assalto, Prisco entra in scena masticando una “cincomma” datagli dagli americani. L’azione si vivacizza con situazioni da slapstick e movimenti da mimi che preludono ad epoche di emancipazione mancata. Dopo foto della strage di Portella della Ginestra, i Nostri entrano in scena malconci, feriti e “stroppiati” perché picchiati dai poliziotti. Pur proclamandosi innocenti, nessuno ha ascoltato le loro giustificazioni: “Come te sienti?”, “’ntraumatizzato”. Ma è valsa la pena di protestare? Sarebbe stato meglio non mettersi strane idee in testa, dato che “Pe’ fa’ le tarantelle, ci trovammo addò stammo mo’…”, ossia peggio di prima. Sempre esclusi. Sempre ultimi. Inascoltati, ricacciati ai margini della storia. Anche in ciò che è seguito al terremoto. Mostino misura coi passi ciò che rimane di una casa crollata e reca con sé una valigia, tutto quello che gli hanno dato al centro di distribuzione. Prisco riconosce che non ha né un “San Ciriaco” né un “Sant’ Ortensio” che lo protegga, ed essendo l’ultimo della fila, i soccorritori gli hanno dato quel che era rimasto: una croce, grande e pesante, che trascina a stento prima di farla rovinare a terra. I due si rivolgono a Dio per giustificarsi: Mostino non vuole aiutare Prisco a portare la croce, non è stata assegnata a lui.
E tra schermaglie e proteste, una considerazione illuminante: “Non è colpa nostra se mi sento come se stessi fermo e allo stesso punto ma da un’altra parte”, a cui non c’è altro da rispondere che un “Non ti preoccupare, dormi…”.
L’ultima cesura temporale è costituita da un serrato montaggio di immagini televisive prese da più canali. Prisco entra con una pelliccia e controlla le suonerie di un cellulare. Mostino protesta perché vuole dormire, ma il cellulare serve “Pe’ addiventà importante”. Ma per Mostino “Non ci vogliono i soldi, ma la classe”. La pelliccia a Prisco l’ha data còmpa Mèrulo, sorta di serpente tentatore della modernità (e non a caso aveva donato precedentemente a Prisco una vipera in un sacco). Stavolta il suddetto compare ha convinto il sempliciotto Prisco che in cambio di un lavoro facile facile può avere molti soldi, secondo quanto promesso da un ricco individuo. Non ci vuol molto a capire che nell’attualità la terra è quella che ha inghiottito tonnellate di veleni industriali. Mostino realizza di aver dormito sulla “monnezza” e che deve sotterrarne altra per conto dell’”amico” di còmpa Mèrulo. Ma è il prezzo da pagare per la sopravvivenza. I due cominciano a scavare: “Io domani m’accatto l’alifante”, “Io ‘o ciuccio che vola” (a rimarcare un’antitesi di visioni tra il còmpa entusiasta e il còmpa disilluso), mentre scorre in sottofondo musica balcanica.
Ma quella terra è avvelenata, non è la terra che li ha visti nascere e che li ha legati indissolubilmente a sé: “Nui simmo fatti re' terra, re' prete, re' montagne”. “Mo’ stammo morenno, ma po’ tornammo a nasce allo stesso punto, ma ‘a n'ata parte”.
Se i suoni sono quelli del fantastico dialetto costruito sapientemente dagli attori (capaci di rievocare in chi scrive davvero quei volti e quelle espressioni, quegli sguardi di chi ha vissuto e lavorato in campagna), i rumori sono le lusinghiere sirene della guerra e del facile progresso che ha soltanto sfruttato il territorio rurale e sociale. Teatro dialettale e locale questo Storia di terra di suoni e di rumori – uno degli spettacoli che il Teatro 99posti ripropone nell’ambito de La Bella Estate – fortemente ancorato alla precisa realtà storica e linguistica dell’Irpinia (o meglio, di una parte di essa) ma nello stesso tempo teatro universale, globale, come le distanze che separano dalla dignità gli ultimi della terra. In qualsiasi luogo, di qualsiasi terra.

 

 

 

La Bella Estate
Storie di terra di suoni di rumori
di Paolo Capozzo
regia Gianni Di Nardo
con Maurizio Picariello, Paolo Capozzo
in video Vito Scalia
lingua dialetto irpino
durata 50'
foto in bianco e nero Franco Cretella
Avellino, Terrazza del Teatro Carlo Gesualdo, 3 agosto 2014
in scena 3 agosto 2014 (data unica)

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